Il 18 agosto 1598 la Santa Maria Bonaventura
salpò dal porto di Cagliari
diretta a Tortolì per caricare 350
quintali di formaggio. Era una piccola
nave a vela e a remi chiamata dagli
spagnoli saetia. Una “saetta” dalle
dimensioni ridotte per guadagnare
in velocità e agilità nel caso di approdi
difficili. Alla fine del Cinquecento,
in Sardegna e con una simile
imbarcazione, era meglio prendere il
largo in primavera o d’estate. Il periodo
era decisamente più favorevole
alla navigazione e, nel malaugurato
caso di un’incursione di pirati o
corsari, sarebbe stato più facile cambiare
rotta.
Nicolao Pintor, il proprietario della
saetta, aveva preso tutte le precauzioni
per evitare il peggio. Peccato
che fosse tutto inutile. Alla fonda
vicino a Serpentara, nascosti e in
attesa della piccola
nave sarda, c’erano i
corsari moreschi, coltello
tra i denti e sciabola
sfoderata. Fu
razzia.
La storia della Santa
Maria Bonaventura
e del suo tragico destino l’ha ricostruita
Daniele Vacca, giovane studioso
della Sardegna spagnola, nella
sua tesi di dottorato discussa recentemente
all’Università di Cagliari.
Tutti i particolari sulla vicenda riemergono
dal fondo “Regia amministrazione
delle torri” custodito
nell’Archivio di Stato di Cagliari.
«Dopo la partenza della detta sagetia
dal porto di Cagliari, per caricare
nel porto di Tortolì i detti e altri
formaggi, è stata svaligiata da due
galeote di mori», si legge in uno dei
documenti ritrovati dal ricercatore e
tradotti dal catalano. «E tra le altre
cose hanno preso, rotto o gettato in
mare le tretes», le concessioni per la
commercializzazione ed esportazione
del formaggio.
La piccola saetta fu depredata di
tutto il carico. Tutto ciò che invece
era stato considerato privo di valore
fu gettato in mare dai
corsari, comprese le
due preziose concessioni,
essenziali per
trasportare e vendere
il formaggio, delle
quali erano titolari i
mercanti cagliaritani
Joan Antoni Marty e Montserrat Tristany.
L’attacco avvenne di sorpresa
anche a causa dell’insufficiente apparato
difensivo della zona.
È ipotizzabile
addirittura che i mori avessero
trascorso tutto l’inverno indisturbati
nelle vicinanze della costa. Magari
acquattati in qualche cala, o appostati
dietro uno scoglio. A peggiorare
la situazione si aggiungeva il
fatto che nel 1598 a Serpentara non
esisteva ancora una torre di avvistamento.
Solo nel 1605 il luogotenente
e capitano generale del Regno di
Sardegna, Pedro Sanchez, decise di
realizzare la fortificazione. «La costruzione
della torre nel detto luogo
dell’Isola di Serpentara era una cosa
utile e conveniente e necessaria»,
attesta un documento dell’epoca riportato
alla luce da Vacca, «considerando
gli enormi danni che i nemici
della nostra santa fede cattolica causano
ogni giorno ai Cristiani per non
aver riparo e luogo sicuro onde potersi
ritirare in dette isole e nelle
quali ogni giorno ci sono vascelli di
nemici non visti dalla terraferma».
La Sardegna, assieme a Sicilia e
Baleari, poteva essere considerata
una frontiera della cristianità nel
Mediterraneo occidentale. Esposta
ai continui attacchi barbareschi, bersaglio
delle scorrerie che partivano
dalla costa africana. Khair ed-Din
detto “il Barbarossa” o Torghoud
Dragut erano nomi che evocavano
terrore. «Numerosi i Sardi, pescatori
o abitanti della costa, che rapiti
dai Barbareschi, andavano ogni anno
ad ingrossare le file degli sventurati
prigionieri o dei ricchi rinnegati
ad Algeri», raccontava Fernand
Braudel nel celebre Civiltà e imperi
del Mediterraneo nell’età di Filippo
II (Einaudi).
Tra i tanti che abbracciarono
la religione islamica dopo
essere stati catturati dagli arabi, ci fu
anche Hassan Agà, pastorello dell’isola
di Asinara. Venne fatto prigioniero
dal Barbarossa mentre portava
al pascolo il gregge. Ma in poco
tempo diventò pupillo e luogotenente
del famoso corsaro di Algeri. Non
a tutti però era riservato il trattamento
speciale del giovane sardo.
Molti dei deportati erano ridotti in
schiavitù, come capitò a Miguel de
Cervantes, l’autore di Don
Chisciotte, poi liberato in seguito al
pagamento di un riscatto.
Oltre le coste, le spedizioni corsare
affliggevano anche l’entroterra.
Diversi i paesi del Campidano esposti
verso il Golfo di Oristano ad essere
raggiunti dai barbareschi: Terralba,
Arcidano, Pabillonis, il villaggio
scomparso di Bonorcili vicino a Mogoro.
Uras fu letteralmente devastata
dai predoni del mare. Una lapide
in sardo ricorda la “visita” del Barbarossa:
«A 5 de arbili 1546 esti istada
isfatta sa villa de Uras de manus
de turcus e morus effudi capitanu de
morus Barbarossa». È anche vero
però che questa immagine dell’arabo
crudele ammazza cristiani in parte
è stata costruita dai predicatori incaricati
di riscuotere le imposte a sostegno
della politica spagnola in
nord-Africa, in parte era basata sulla
misconoscenza e sul pregiudizio
verso un nemico lontano e diverso. A
ben vedere l’impero ottomano era
più accogliente verso gli “infedeli” rispetto
al mondo mediterraneo
cattolico.
Cristiani ortodossi ed
ebrei in fuga dalla
Spagna o da Venezia
spesso si rifugiavano
nei più tolleranti territori
arabi. Tuttavia
l’odio ideologico della Cristianità verso
l’arabo era diffusissimo e pochissimi
la pensavano come il filosofo calabrese
Tommaso Campanella, auspice
nel 1599 di un intervento liberatore
musulmano nel Regno di Napoli
allora sotto il controllo spagnolo,
e per questa ragione arrestato.
A parte sbattere in cella cospiratori
come Campanella, dopo il 1574,
anno della caduta di La Goletta sotto
controllo islamico, una delle principali
preoccupazioni della Spagna
di Filippo II era quella di rafforzare
i presidi del Mediterraneo occidentale.
In questo “piano di difesa organico”
viene inserita anche la Sardegna,
spiega Giuseppe Mele, storico dell’Università
di Sassari e autore del recente
Torri e cannoni (Edes). Nonostante
il suo modesto peso economico
e demografico, ma non strategico,
l’isola è interessata dal notevole intervento
di irrobustimento difensivo.
In più a Madrid si temeva anche il
peggio. Si riteneva imminente un’invasione
turca della Sardegna, fatto
che spiega l’intensificazione dei lavori,
il via vai di ingegneri militari nelle
principali piazzeforti, la creazione
di una struttura amministrativa centralizzata.
L’invasione non ci fu
ma le incursioni dal
mare proseguirono.
Serpentara è un
esempio. Come un
esempio sono gli attacchi
tunisini a Carloforte,
Sant’Antioco,
Capo Carbonara sino ai primi anni
dell’Ottocento, con annessi saccheggi
e prigionieri. In seguito all’assalto
all’isola tabarchina, nel 1799, furono
catturati tutti gli abitanti. Più di
900 persone trasportate e tenute come
schiavi in Tunisia. La liberazione
arrivò solo dopo che il papa, i Savoia
e altri sovrani cattolici, pagarono il
consueto riscatto.