(5 novembre 2013) Breve storia di ordinaria amministrazione (carceraria). Lu Pesce era un ragazzone che nel quartiere non hanno dimenticato. Aveva una forza fuori dal comune e fuori dal comune era la sua voglia di evadere. Voleva scappare da quella cella bassa e stretta tappezzata di pregiudizi, ignoranza e perbenismo che, se non rispetti gli schemi, il quartiere ti costruisce intorno.
Poi, Lu Pesce, in cella c'è finito davvero. Ed è lì che l'ho conosciuto, quando con Gisella Vacca e Riccardo Combet, mettemmo in scena lo spettacolo interpretato dai detenuti del carcere minorile di Quartucciu. Ricordo la sua voglia di partecipare, di essere in prima fila, di risolvere tutti i problemi: "Quella piantana la porto io, Walter". "Posso montare il faro?". "Dai, scarichiamo le panche".
Lu Pesce era un punto di riferimento anche per gli altri, aveva un suo modo irruento di stare al mondo, non si accontentava, voleva raggiungere una meta che forse non esisteva. Una sera, dopo uno spettacolo, seduti attorno a un tavolo, si parlava di Clint Eastwood e di Fuga da Alcatraz, dei grandi miti della cinematografia carceraria. Lui sorrideva e lo ricordo bene quel sorriso grande da bambino cresciuto in fretta. Gli avevo promesso una cartolina, da Alcatraz, se mai ci fossi andato.
Ma la notte si torna in cella. E in cella a 18 anni è difficile stare. In cella ti tagli le braccia per finire in infermeria. In cella ti droghi. In cella muori. Lu Pesce ha sbagliato, è vero. Ha commesso crimini anche gravi. Ha accumulato tantissima rabbia e ha ingurgitato palmi di psicofarmaci. Quindi è arrivato nel carcere dei grandi e lì, come tanti altri, l'ha fatta finita.
Forse bastava poco per salvarlo. Molto meno di una telefonata.
(walter falgio)
*Ho scritto queste righe dopo aver letto il post di Sergio Di Cori Modigliani ripreso dagli amici della "Don Chisciotte".