Oliviero Beha, questa Italia senza memoria e futuro

Sono un montanelliano
con una mentalità
di sinistra», si
autodefinisce Oliviero
Beha. Fa proprio il precetto
del grande vecchio del giornalismo:
«Il mio padrone è solo il
pubblico». Peccato che uno così
in Italia non lo faccia lavorare
nessuno. Vicedirettore in sonno
a libro paga Rai, curriculum volutamente
e orgogliosamente
contro. Esiliato e censurato bipartisan,
da destra e da sinistra,
l’ex conduttore di Va’ pensiero e
di Radio a colori vede un futuro
in bianco e nero per la malatissima
Italia: «Dobbiamo ricostruire
le condizioni per una
piattaforma di valori condivisa o
la vedo brutta». Nel suo nuovo
libro presentato ieri a Cagliari
dall’associazione “Salvatore Ferrara”,
Crescete & prostituitevi
(Bur, 161 pagine, 8,20 euro), Silvio
Berlusconi è il principale indagato.
Ma la sinistra “in riparazione”
non se la cava meglio.

Incompreso ed esiliato: si riconosce
in questi due aggettivi?

«Incompreso sino a un certo
punto, esiliato sicuramente sì,
non lo dico io. Casomai mi sento
esiliato in quanto compreso e
quindi pericoloso e inaffidabile,
secondo una terminologia politico
mediatica, ma pure non ricattabile
».

Vista la realtà dei media italiani,
meglio complici o epurati?

«Chi vuol fare carriera rischia
di essere complice. Chi non vuole
essere complice rischia di non
far carriera e, nei casi più vistosi,
rischia di essere epurato. Sul
piano della chimica mediatica
questa è una condizione abbastanza
pura».

Non ci sono alternative?

«Come in tutte le cose della vita
ci sono tante vie di mezzo. C’è
qualcuno che si vende e qualcuno
che si vende meno, qualcuno
che è bravissimo e altri meno
bravi, qualcuno che è connivente
con il potere e qualcuno che fa
resistenza. Io rappresento un
polo estremo di questo scenario,
un casino di caccia della libertà,
perché non guardo in faccia a
nessuno. Prova ne sia che non
riesco più a parlare».

In un celebre editoriale del
Corriere della Sera di trent’anni
fa, Pasolini “faceva i nomi”.
Lei invece nel suo “Crescete &
prostituitevi” di nome ne fa soprattutto
uno: il suo obiettivo
polemico preferito adesso è
Berlusconi e il berlusconismo.

«Non mi riconosco in questa
lettura, io faccio tutti i nomi necessari
alla bisogna».

Ma attacca soprattutto Berlusconi.

«Io parlo di una Repubblica
fondata sul denaro, l’Italia di
Berlusconi, ma anche di una sinistra
in riparazione. Non a caso
il recente rapporto del prestigioso
settimanale britannico
Economist descrive un paese in
pessime condizioni a causa delle
politiche del presidente del
«S
Consiglio. Ma aggiunge che se la
sinistra dovesse vincere le elezioni
non riuscirebbe comunque
a riparare quei danni. Tutto questo
non rimanda vagamente al
sottotitolo del mio libro? Se le dicessi
che a settembre ho mandato
il volume alla redazione dell’Economist
non le viene la voglia
di fare due più due?».

Ha mai subito il fascino del
Cavaliere?

«Contrariamente ad altri, prima
di discutere fino in fondo e
all’ultimo sangue il pericolo, l’errore
e l’incongruenza di Berlusconi,
fra il 1994 e il 2001 ho
pensato di metterlo alla prova:
vediamo se fa qualcosa di positivo,
pensai. Non avevo pregiudizi.
Adesso invece esprimo un
giudizio a posteriori e dico che è
un disastro. Il vero disastro però
non è solo Berlusconi, che forse
è alla fine della sua parabola politica,
ma è uno stile di vita, di
mercificazione e assenza di valori
che io chiamo berlusconismo
e che ha attecchito non solo a destra
ma anche a sinistra».

Nel suo libro ce n’è per tutti,
ma quei pochi che salva sono
soprattutto di sinistra: da Sofri
a Nanni Moretti.

«Salvo Sofri in confronto a
Giuliano Ferrara. Dico provocatoriamente
che Sofri, l’intellettuale
italiano con più capacità,
bisognerebbe barattarlo con
Ferrara. Quest’ultimo, già prigioniero
somaticamente, va in
carcere a Pisa a sfogare il suo
complesso di colpa, mentre il
primo esce dalla categoria di “intellettuale
in galera” ed entra in
quella di “intellettuale e basta”.
Vorrei vedere se i giornali lo considereranno
ancora un guru. Aggiungo
però che forse è di cattivo
gusto parlare di lui viste le
condizioni in cui si trova».

Comunque lei dà giudizi molto
positivi su Sofri e Moretti.

«Ma non dico nulla sul caso
giudiziario. Sono due persone vive
in un Paese morto, il fatto che
siano di sinistra è secondario».

Il suo libro è pubblicato da
un grande gruppo editoriale
oggetto anche dei suoi attacchi:
una contraddizione o un
grande esempio di democrazia
che smentisce le sue tesi?

«Bisogna vedere la parte del
bicchiere mezzo pieno: la Bur
stampa un libro di questo genere
e con ciò potrebbe contraddire
il mio lamento di poca democrazia
e poca libertà in Italia. E
la parte del bicchiere mezzo vuoto:
da quando qualcuno si è ritrovato
citato nel libro non c’è
più la carta per le ristampe, non
si fanno più presentazioni, il
Corriere della Sera non lo recensisce.
Un caso?».

Se potesse scegliere, domani
in quale testata vorrebbe lavorare?

«Dovunque trovi libertà. Il paradosso
della mia situazione è
che io porto in dote le mie caratteristiche
professionali a chiunque
mi faccia lavorare. Il problema
è che in Italia esiste un trust
di poche persone che domina un
po’ tutto per cui se qualcuno non
può lavorare in Rai non è detto
che possa passare a Mediaset o
a La 7».

Perché se la prende così tanto
con la televisione?

«La televisione sta deformando
il nostro stile di vita, sta procurando
un danno all’etica e all’intelligenza
del Paese. Viene
messa in scena la parte peggiore
dell’animo umano. Perché
l’onnipresente cardinal Ruini
non interviene anche su questo?
».

Nel suo libro cita 13 casi di
censura a suo danno. Vuole
raccontarne uno che magari
ha lasciato fuori?

«In una sera di settembre del
1994, quando ci fu la prima
infornata di nomine Rai fatta da
Berlusconi, i vari Mimun, Vigorelli,
Rossella, i giornali scrissero
che ero stato scelto come direttore
di Rai Due anche se non
si capiva in quota a chi. Qualcuno
diceva Berlusconi, qualcun altro
la Lega. La mattina dopo ero
già sparito da quell’elenco. Non
appartenevo a nessuno, c’era
stato soltanto un equivoco: avevano
usato il mio nome per accreditare
tutto il pacchetto».

La sua ricetta?

«Dobbiamo ricostruire le condizioni
per una piattaforma di
valori condivisi o la vedo brutta.
O ci si rende conto della malattia
che ha il Paese, che non è solo in
chiave economica, o le nuove generazioni
non avranno una prospettiva.
Il problema vero è la
mancanza di identità culturale
in un’Italia dove viene rimosso il
passato e dove non c’è il senso
del futuro».

Prossimi impegni in Rai?

«Sono un vicedirettore inutilizzato,
sono in libro paga e non
lavoro. Questa è una cosa che
dovrebbe offendere tutti i cittadini
».