Modesto Melis e l’orrore totale

(4 marzo 2013) Modesto Melis è sopravvissuto a un campo di sterminio nazista, a un Konzentrations-Zentrum, all’annientamento totale delle Schutzstaffel SS. È un uomo di 93 anni con austere sopracciglia increspate. Minuto e massiccio come un sardo di montagna a volte si presenta. Padrone di un personalissimo linguaggio in grado di spiegare l’orrore con la semplicità. A conferma che la parola non è mai sufficiente per riportare i dettagli della “non-vita” da deportato, l’ausilio di un taccuino e di due penne ha consentito di descrivere plasticamente la latrina del lager di Mauthausen, una vasca di 5 metri con una coppia di travi parallele a mo’ di trespolo. I costretti la svuotavano a mano con un secchio e una scala. Un giorno lì dentro precipitò un ebreo sfinito che morì senza un gemito e senza nessuno che potesse salvarlo.  

Catturato dai fascisti a Firenze il 4 febbraio del ’44, in seguito a una delazione, Melis è stato deportato nel lager austriaco dopo aver transitato per l’ex carcere di Firenze delle Murate e per i campi di concentramento italiani di Fossoli e Gries. Ha ritrovato la libertà con l’arrivo degli americani a Mauthausen, il 5 maggio 1945.

In occasione della presentazione del libro (organizzata sabato 2 marzo alla Cineteca sarda di Cagliari da GreenWood Consulting di Mariangela Pisanu con Antonello Zanda, Cristina Maccioni e l’autore) che ricostruisce la sua testimonianzaL’animo degli offesi di Giuseppe Mura, Giampaolo Cirronis Editore – io e Vito Biolchini lo abbiamo intervistato. Di seguito riporto i 50 minuti di dialogo suddivisi in cinque file scaricabili.

Questi alcuni spunti emersi durante il dibattito.

La fase di sbandamento che l’esercito regio subisce dopo l’8 settembre ’43 è ben evidenziata nella prima parte del racconto di Melis. Emerge la totale deriva alla quale andavano incontro i soldati: tra chi sceglieva Salò, chi la Resistenza e chi saltava le linee, c’era una ampia zona grigia fatta di espedienti, improvvisazione, rischi e violenza. La Firenze dove lui si trova sbandato tra il ’43 e il ’44 è una città molto pericolosa. I tedeschi si stavano riorganizzando a monte della lenta avanzata alleata e dovevano tagliare le gambe a qualunque forma di resistenza, soprattutto in zone strategiche a ridosso della linea gotica dove si collocava la città, per evitare insurrezioni a sostegno degli angloamericani. Questo spiega la pesante tensione che aleggia nelle parole di Melis.

Aveva mai pensato di darsi definitivamente alla guerra partigiana in clandestinità?

“Ero già stanco di fare la guerra. Con chiunque fossi andato avrei dovuto combattere. Tanto valeva restare sbandato. Come va va. Se non toccava a lui toccava a me”, ripete l’ex deportato nel descrivere le azioni e le uccisioni di fascisti. Come quella consumata in auto, dal sedile posteriore: nel corso del primo arresto, Melis fredda i suoi aguzzini con due colpi alla nuca ravvicinati e si dilegua.

Le descrizioni più forti e sconvolgenti della deportazione, così come in Primo Levi, riguardano le figure dei cosiddetti “musulmani”, i sommersi, i rassegnati, i “votati alla selezione”, coloro che senza scampo erano destinati al gas e alla morte per sfinimento. Gli ebrei certamente, ma soprattutto chi non riusciva a svicolare dalla disciplina mortale del lager. Melis ha conosciuto i non-uomini, i testimoni integrali, sempre per citare Levi, “coloro che hanno visto il volto della Gorgona” e quindi non hanno potuto sopravviverle. Li ha osservati, li ha descritti e ha sperimentato l’allucinante disperazione dell’essere testimone della non-vita, e quindi della non-morte, in loro vece. Levi è così ossessionato dal peso e dalla responsabilità di questa testimonianza al punto da annebbiare persino l’euforia davanti ai russi liberatori: “La libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato”. Per questo in pochi corsero incontro ai salvatori, continua Levi.

Forse anche Modesto Melis ha conosciuto questa strana disperazione.

“Certe situazioni non le posso raccontare – dice – Si camminava al buio. A volte mi chiedo se è vero quello che ho visto e resto imbambolato. Nemmeno io so come mi sono salvato. Quando non avevamo i cucchiai ci si metteva in tre davanti al piatto e guai a chi spostava le labbra oltre il proprio angolo. Mangiavamo sempre roba nera (cenere addensante aggiunta nelle minestre – Ndr.), a volte rane, forse riconoscevo qualche patata. Il vestiti di ricambio erano quelli dei morti. Ho pianto quando in un villaggio tra il campo e le gallerie dove lavoravamo ho visto dei bambini che giocavano su delle biciclette. Ho pianto perché ho ricordato che anche io ero stato bambino”.

Ma perché ha deciso di testimoniare. Qual è la molla che è scattata in lei?

“Sono passati 20 anni prima che decidessi di raccontare la mia storia. Al rientro era impossibile, non mi credevano. Pesavo 37 chili e quando mia madre mi vide svenne. Ho iniziato a parlare nelle scuole. Oggi faccio anche 27 incontri in un mese. Ma all’inizio nessuno mi credette”.

(walter falgio)

IO E VITO BIOLCHINI INTERVISTIAMO MODESTO MELIS (50′ – 2 MARZO 2013)

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