Raccontare la storia a pezzi, senza
chiarire chi c’è prima e chi dopo,
non sembra il metodo migliore
per giungere a un buon risultato.
Non occorre essere specialisti
per intuire che estrapolare e selezionare
alcune parti dal contesto, ignorandone
volutamente delle altre, può essere
piuttosto un buon metodo per offuscare la
memoria. O peggio, servire ad avvalorare tesi
altrimenti insostenibili. Nel cominciare a
pensare il libro L’ombra nera, presentato giovedì
scorso a Cagliari a cura della Fondazione
Siotto e pubblicato da Mondatori (223 pagine,
18 euro), lo storico torinese Gianni Oliva
si è posto prima di tutto questo problema:
«Perché nel 2007 si scrive un libro sulle stragi
commesse dai nazisti e dai fascisti in Italia
nel 1943-45?».
La risposta, per sua stessa
ammissione, è sostanzialmente banale:
«Perché a forza di parlare dei fascisti uccisi
dopo il 25 aprile, si stanno dimenticando tutti
quelli che del fascismo e del nazismo sono
stati vittima “prima” di quella data».
Per entrare subito nel cuore della questione,
ecco l’esempio che lo stesso Oliva (introdotto
dalle relazioni di Luciano Marrocu,Aldo
Accardo e Gianni Filippini) riporta al pubblico
di studenti. Il 3 maggio del 1945 Giuseppe
Durando, podestà in fuga di Cumiana,
piccolo paese della provincia, viene scovato
nel suo nascondiglio torinese da un gruppo
di partigiani delle Squadre d’azione patriottiche.
Quasi tutti operai della Fiat Lingotto.
«Con un cartello appeso al collo – sono un
criminale di guerra – viene fatto girare per
la città sul cassone di un camion», scrive Oliva.
Poi i partigiani si dirigono verso la vicina
Cumiana. In pochissimo tempo il piccolo
paese è in subbuglio. Si sparge la voce che
Durando è stato catturato e si trova proprio
nella piazza principale. “L’ultimo fascista cumianese”
è davanti ai suoi compaesani.
L’istinto porta subito alla resa dei conti. Dopo
un processo improvvisato la rabbia popolare
si scatena. E a martoriare letteralmente
il fascista ci pensano le donne di Cumiana,
“con forbici taglienti e zoccoli sbattuti in
faccia”. Durando viene strappato dalle grinfie
della folla furiosa e portato nel vicino
ospedale. Nonostante da Pinerolo arrivi l’ordine,
non confermato, di sospendere l’esecuzione,
l’ex podestà è di nuovo nelle mani dei
partigiani armati. Questi decidono per l’esecuzione
e finiscono il nemico sparando raffiche
di mitra sul corpo agonizzante.
Questo spicchio di storia, raccontato così,
induce con molta probabilità il lettore a solidarizzare
con il povero fascista. A detestare
le donne indiavolate e violente. A non capire
perché, una piccola comunità della provincia
torinese, si scagli in quel modo bestiale
contro un uomo solo e indifeso. E poi
decida di ucciderlo, senza pietà. Ma se, tornando
indietro, allo spicchio si aggiunge il
contesto, le cose cambiano.
La notte tra il
31 marzo e il 1° aprile del 1944, una formazione
partigiana comandata da Nino Criscuolo
prende alla sprovvista un gruppo si
“SS” italiane e riesce a debellarlo. In meno
di mezz’ora i partigiani portano a termine
un’azione esemplare riuscendo a portarsi
dietro 34 prigionieri, 32 italiani arruolati con
i tedeschi e due sottufficiali del Reich. Poche
ore dopo Cumiana è occupata dai reparti tedeschi
e della Repubblica di Salò. I militari
con la svastica entrano nelle case, bruciano
tutto quello che trovano con i lanciafiamme
e rastrellano i paese. Ogni uomo è preso in
ostaggio.
L’angoscia più nera cala sulla piccola
comunità di agricoltori e operai. «Eravamo
nelle loro mani, potevano farci quello
che volevano, deportarci in Germania, impiccarci
sulla piazza, torturarci per farci confessare
cose che nessuno di noi sapeva», ricorda
un maestro elementare. Il podestà Durando,
forse l’unico in grado di poter trattare
con i tedeschi, è già scappato da giorni.
«Avvertito di quanto succede a Cumiana il 1°
aprile, Durando non prende iniziative e non
si mette in contatto con le autorità fasciste
torinesi», ricostruisce Oliva.
Il 2 aprile i tedeschi dettano le condizioni:
«Restituzione immediata e incondizionata
dei trentaquattro prigionieri, insieme agli
R
autocarri e all’armamento individuale, pena
l’esecuzione di tutti gli ostaggi». Si insatura
una trattativa affidata al medico condotto
del paese.
Ma i tedeschi e i militi della Repubblica
sociale non aspettano l’esito del
confronto. Alle 14 del 3 aprile 1944, gli
ostaggi civili sono scortati dietro l’angolo di
una cascina. Sono 58 uomini destinati al
massacro. Un sottufficiale tedesco afferra gli
ostaggi a gruppi di tre e comincia l’esecuzione
come se fosse in una catena di montaggio.
Qualche ostaggio si salva, un altro è graziato
perché l’arma si inceppa. Il bilancio finale
conta 51 morti ammassati sull’aia.
Senza ragione apparente, mettendo in
moto un terrore casuale e devastante, i militari
tedeschi decidono di fare fuori decine
di persone dalla mattina alla sera.
Il paese è
sconvolto. «In un borgo di 4mila anime un
simile eccidio tocca tutti da vicino», continua
Oliva. Nessuno si può sentire estraneo
alla morte. Il disorientamento, il dolore e poi
una rabbia di fuoco, spazzano ogni cumianese.
Soprattutto le donne che si trovano da
un giorno all’altro senza mariti, figli, padri.
Le “SS” italiane catturate dai partigiani saranno
liberate. Tornando al ’45 e alla resa
dei conti, al linciaggio di Durando, i contorni
cambiano, lo scenario è diverso. I rapporti
di causa-effetto sono più chiari. È vero che
il podestà non avrebbe probabilmente subito
condanne pesanti se fosse stato sottoposto
a regolare processo. Ma il contesto spiega
le reazioni del paese. Il “prima” riemerge
e svela il “dopo”.
«Sia chiaro, si tratta di
un prima che non assolve il dopo”», sottolinea
Oliva, un prima «indispensabile per
comprendere comportamenti e attitudini di
massa altrimenti inspiegabili». Perché correlare
i fatti rispettando un ordine cronologico,
«non significa giustificazionismo».
Uno degli obiettivi critici di Gianni Oliva è
rappresentato dalle ultime pubblicazioni del
giornalista Giampaolo Pansa. Lavori importanti,
in quanto finalizzati a «sdoganare un
capitolo della nostra storia per decenni ignorato
», premette Oliva. Ma viziati da un limite.
Raccontare le esecuzioni di cui si sono
resi responsabili i partigiani nella primavera
del ’45, raccontare i processi improbabili,
la spettacolarizzazione della morte, il furore
sfrenato, senza spiegare il perché.
Senza
ricordare che a Marzabotto e a Sant’Anna
di Stazzema sono morti 10mila civili per
mano nazifascista. Che 7mila ebrei italiani
sono stati deportati. Omettendo che la guerra
non finisce mai con un atto ufficiale ma si
trascina nella pace, nella zona grigia, in una
dimensione dove nessuno può definirsi
“normale”. Parlare del “sangue dei vinti”
senza spiegare chi erano realmente, non è
un buon metodo per capire la storia.