«L’ozio e l’inerzia sono la no-stra morte lenta. Abbiamo sbagliato e dobbiamo paga-re. Questo non si discute. Ma almeno teneteci impegnate, fateci lavorare, dateci la pos-sibilità di avere la testa occu-pata». Una ex detenuta nel carcere di Buoncammino racconta la piatta normalità del braccio femminile. La giornata incolore che, tra il cambio della guardia alle 6 del mattino e la chiusura del-la porta blindata alle 8 di se-ra, deve trascorrere senza in-toppi. Sempre rigorosamente uguale a se stessa. Perché il carcere è una macchina che non può incepparsi, con pic-colissimi margini di mano-vra. «Sì, racconto tutto, ma a una condizione: l’anonima-to». Niente nome, niente ini-ziali. «Niente di niente. Per noi che siamo state dentro, la vita fuori è molto più diffici-le». Trentanove anni, cinque e mezzo passati in cella in due tranche, da ottobre è li-bera. «Ho fatto di tutto per trascorrere nel migliore dei modi i 18 mesi dell’ultima condanna. Mi sono compor-tata educatamente, ho cerca-to di svolgere i compiti che mi venivano richiesti. Così non possono trattarti male. Ho anche lavorato e per que-sto posso considerarmi for-tunata».
Sul totale delle recluse, ar-rivate anche a 40 negli ultimi tempi, solo tre potevano ave-re incarichi di lavoro. «Quan-do sono uscita, però, le cose stavano cambiando. Con il nuovo direttore gli impieghi concessi sono passati a sette, per un massimo di sei ore al giorno: due rattoppine, due scopine, una portavitto e una scrivana». Recluse che si oc-cupano di rammendare, pu- Il direttore cerca contatti con aziende per creare un laboratorio artigianale «In cinque anni di prigionia ho dato 8 esami» «Il carcere è un’esperienza che ti distrugge» lire la sezione, trasportare i pasti con il carrello e racco-gliere le domande per i per-messi. «Le scrivane aiutano anche le detenute extraco-munitarie che non conosco-no l’italiano a compilare le ri-chieste». Lo stipendio arriva a 800 euro al mese per un impegno di sei ore al giorno. Le finestre della sezione femminile di Buoncammino si affacciano sul cortile inter-no, vicino al braccio destro. È un carcere nel carcere, una piccola struttura con un ca-merone e tre celle al piano terra.
Altro camerone, cin-que celle e sala al primo pia-no. «Non è adatto per chi sta male, l'infermeria è assoluta-mente inadeguata. Se capita un'emergenza e chiedi di es-sere accompagnata in ospe-dale, a volte passano ore, molte ore. Nel caso di un'im-putata occorre l'autorizzazio-ne del magistrato e devono mandare la scorta. Nel frat-tempo può capitare di tutto. Io ho atteso mesi per una vi-sita esterna. Quando me l'hanno assegnata coincide-va con un colloquio». La giornata comincia alle 6, con il cambio della guardia e i controlli. Chi lavora deve uscire dalla cella alle 7 e rien-trare alle 13. Latte già zuc-cherato in ciotole e caffè de-cisamente lungo per colazio-ne. Alle 8 gli agenti battono le sbarre per accertarsi che sia-no state segate o comunque manomesse, dalle 9 alle 11 ora d'aria nel cortile interno «dove c'è un biliardino e una panchina sotto una lastra di Eternit». A pranzo minestro-ne e, due volte alla settima-na, la pasta, «un pezzo di for-maggio ogni tanto». Carne fritta e bastoncini di pesce i secondi abituali. Si torna in cortile dalle 13 alle 15, e poi sino alle 18 si va nello stan-zone della socialità «dove troviamo quella santa donna di suor Angela con ago e filo e chi vuole può ricamare. In questa sala, dove si dovreb-bero svolgere attività ricrea-tive, c'è uno stereo e una spalliera per la ginnastica. Abbiamo chiesto una cyclet-te o qualcos'altro per passa-re il tempo ma non ci hanno dato niente”. Quando arriva l'estate sono dolori: «A volte tengono aperta la porta blindata del-la cella, così circola un po’ d'aria. In cortile nel pomerig-gio batte il sole. A Ferrago-sto, dopo diverse richieste, hanno permesso di trascor-rere le ore di socialità all'a-perto. Almeno di sera arriva l'ombra».
Per chi ha voglia di leggere, in ritardo, e non tut-ti i giorni, arriva -per tutta la sezione – una copia dell’U-nione Sarda, una, per cella, di Famiglia Cristiana e, su ri-chiesta, qualche libro dalla biblioteca del carcere specia-lizzata in romanzi d'avventu-ra e fumetti. Si può frequen-tare il corso lavoratori per ot-tenere la licenza media in un anno e a periodi si tengono lezioni di informatica, taglio e cucito, ricamo e decoupage. «Al momento le detenute sono circa 25 e i problemi so-no sempre gli stessi», pre-mette il direttore di Buon-cammino, Luigi Magri. «So-no i problemi di una struttu-ra inadeguata, costruita nel 1870. Allora non si parlava certamente di sale per la so-La testimonianza di una reclusa che ha sostenuto esami nella casa circondariale Laurea in Economia conquistata in cella È stata l’unica detenuta sarda iscritta all'Università. «Quando mi hanno arre-stata, nel '90, avevo già dato 12 esami in Economia e Commercio. Durante i 5 anni di reclusione ne ho dati altri 8. Poi mi sono laureata fuori nel '99». Cagliaritana, 42 anni, chiede sia rispet-tato l'anonimato: «Preferisco non essere riconosciuta per strada». Ecco la sua storia. «Cominciamo dalle celle: i letti sono a castello, di ferro arancio-ne. A volte, quando siamo state in tante, hanno aggiunto anche il terzo piano e chi sarebbe dovuta stare in alto preferiva dormire per terra. Il carcere ci passava una gavetta di allu-minio, due piatti in acciaio e le posate. Tutto il resto, dovevamo comprarlo, dal fornellino a gas, allo shampoo. All'ini-zio sono stata nel camerone al piano terra. Da li bisogna solo fuggire. La stanza è grande, ci stavamo anche in 30. Quasi tutte nuove arrivate, le più disperate, alcune si tagliavano con le lamette. C'è un solo bagno, un lavabo e una doccia. Ho cercato di evitare i pro-blemi e ho individuato un gruppetto di compagne tranquille.
Sono passata alla cella A, con doccia e acqua calda e ho chiesto uno spazio per studiare. Niente da fare. In cella, tra chi piangeva o cantava, era impossibile trovare la concentrazione. Mi hanno trasferita a Oristano, ma anche lì c'erano gli stessi problemi. Finalmente, quando sono rientrata a Buoncammino mi hanno concesso di entrare nella sala della socialità dalle 18 alle 20. Per gli esami arrivavano i docenti da fuori. Ricordo che il professore di Tecnica industriale mi aveva chiesto di applicare un con-cetto della sua disciplina al carcere. Avevo risposto, ma alla fine dell'esame ero stata chiamata a rapporto. Mi avevano intimato di non parlare più di questioni interne con i docenti. «La mia cella era una delle migliori: mangiavamo con la tovaglia e teneva-mo tutto in ordine. Forse anche per questo in occasione delle visite dei par-lamentari il direttore li portava da noi. In realtà i miei 5 anni dentro sono stati deleteri. Il carcere ti distrugge. Quando sono uscita sembravo una vecchia. Il ricordo peggiore è legato al periodo in cui stavo terminando di scalare il metadone. D'estate mi mancava l'aria, era terribile. E poi ricordo quando una vigilatrice mi consegnò la prima busta paga da scopina insinuando che non avevo mai visto una cosa del genere. Aveva ragione: non avevo mai ricevuto soldi per lavare le scale”. (wa. f.) L’ingresso di Buoncammino Finestra di una cella cialità o per lo sport. E poi si è perso tanto tempo. Ora stiamo cercando di affronta-re la questione del lavoro».
Gli incarichi interni affidati alla detenute sono passati da 3 a 7 e, per la prima volta, si effettua una turnazione. «Ma non si tratta ancora di un grande risultato – continua Magri – perché al momento le detenute possono svolgere soltanto lavori domestici. In-vece è nelle mie intenzioni cercare di attivare entro l'an-no collaborazioni con società esterne che consentano di svolgere lavori formativi, co-me un laboratorio artigiana-le. Stiamo anche ricavando dei campi di calcetto, ristrut-turando l'infermeria, tentan-do di allestire una vera sala polivalente». Il direttore spende due parole anche sul-la famigerata squadretta: «Si tratta solo di letteratura sul carcere», anche se qualcuno ancora ne parla. «Sì, esiste-va, ma fortunatamente è un'esperienza che appartie-ne al passato», dice l'educa-tore Giulio Versari in servizio a Buoncammino. «Si tratta-va di un gruppo di agenti scelti all'occorrenza, che in-tervenivano a scopo punitivo o intimidatorio, generalmen-te la notte. Spalancavano im-provvisamente la porta della cella, buttavano una secchia-ta d'acqua e sapone per far scivolare i detenuti e poi era-no manganellate. A volte gli interventi erano arbitrari. L'uso della forza è previsto dall'ordinamento penitenzia-rio in caso di emergenza, ma non certo le punizioni corpo-rali. Comunque, lo ripeto, è una vecchia storia. Adesso le cose sono radicalmente cam-biate». WALTER FALGIO