La vicenda dei Govoni e la memoria divisa

(6 gennaio 2017) “Quando cominciai a pensare a questo libro, mi capitò tra le mani un’antologia di una rivista partigiana, Patria indipendente. C’era una poesia”. Chi scrive è Alessandro Portelli, nel suo L’ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, riferendosi al componimento Aladino. Lamento su mio figlio morto (Mondadori 1946) che Corrado Govoni dedica allo stretto congiunto trucidato alle Fosse Ardeatine. L’ho riletto in questi giorni, riflettendo sulla persistenza del concetto di memoria divisa. “Non sapevo ancora chi fosse Aladino Govoni; di Corrado Govoni sapevo che era un poeta fra crepuscolarismo e futurismo”, continua Portelli. “Poche settimane dopo, in epigrafe a un libro di destra – Pierangelo Maurizio, Via Rasella. Cinquant’anni di menzogne – trovo altri versi: stesso autore, Corrado Govoni; stesso titolo, Aladino“.

Nella prima citazione compare una parte dello scritto di Govoni riferito al carnefice tedesco:

Quanto poté durare il tuo martirio
nelle sinistre fosse Ardeatine
per mano del carnefice tedesco
ubbriaco di ferocia e di viltà? [LVI, 78]

Nella seconda uno stralcio che invece richiama la viltà del partigiano

Il vile che gettò la bomba nera
di Via Rasella, e fuggì come una lepre,
sapeva troppo bene quale strage
tra i detenuti di Regina Coeli
a via Tasso, il tedesco ordinerebbe:
di mandante e sicario unica mira. [XLVI, 65]

“La categoria della ‘memoria divisa’ è oggi una pietra angolare del discorso sulla guerra, la resistenza, le stragi naziste”, osserva lo storico Alessandro Portelli. Ma in questo caso, nel caso di Govoni, si assiste a una cesura tutta interna alla medesima esperienza umana. “Non si stratta di due poesie contrapposte, ma di una stessa poesia nello stesso libro”, sempre Portelli. E aggiunge che il modo per alterarne il significato, mistificarne il senso, di privare la poesia di un’interpretazione, “è farla a pezzi, e spartirsela prendendosi ognuno il pezzo che gli fa comodo”.

La vicenda di Govoni è inscritta in un orizzonte molto significativo e la lettura del suo Lamento oggi è decisamente illuminante. Corrado, il padre di Aladino, è stato poeta molto fecondo (qui la voce del Dizionario biografico). Resta ambigua la sua prossimità al fascismo sebbene lui stesso nel settembre del 1943 confessasse a Giovanni Papini di “aver creduto, piuttosto tardi e solo per un certo periodo” in Mussolini. Gli dedicò opere apologetiche contraccambiate da “qualche migliaia di lire buttate in faccia come elemosina, accettate per necessità, pagate con vergognose anticamere [e] affannoso salire e scendere scale di redazioni di giornali e di ministeri…”, ricostruisce sempre Portelli dalla missiva, e ancora: “Non è stato mai fascista mio nonno – testimonia Flavio Govoni in L’ordine è già stato eseguito – ; ha se vogliamo scritto dei poemetti, per cercare di poter campare, ma è stato un uomo sfortunato, non ha mai avuto una grossa fortuna nemmeno dal punto di vista poetico, e quindi questa cosa gli si ritorse contro, diventò comunque un poeta bollato come poeta fascista, e questo discordava molto dalla posizione del figlio”.

Aladino Govoni, caduto nella strage del 24 marzo del ’44, ufficiale di complemento nei Granatieri di Sardegna, dopo l’8 settembre aveva combattuto contro i tedeschi alla Cecchignola e a Porta San Paolo. Catturato nel febbraio del ’44 fu torturato e poi massacrato alle Fosse Ardeatine. Gli è stata conferita la Medaglia d’oro al valor militare, la città di Roma gli ha dedicato una strada.

Corrado lo piange con un poema fortissimo, dove dichiara vendetta al “feroce capitano Keller”, allo stesso Kappler, “lo schifoso biondo che porta nella gota la frustata dello sputacchio di una cicatrice, al tenente Marini, “l’assassino che da Regina Coeli i morituri chiamò fuori per nome”: si trattava di Mauro de Mauro sotto falso nome. Lo stesso Govoni lo rimarca in una nota a margine: “Il sedicente tenente Marini, è la spia e collaboratore delle S.S. Mauro de Mauri, uno degli esecutori dei martiri delle Fosse Ardeatine, naturalmente ancora libero come tante altre spie e infami dell’esecrando vile oppressore tedesco”. (De Mauro fu prima condannato in contumacia e poi assolto con formula piena ai processi per “collaborazionismo”).

Pertanto, i fatti dei Govoni riportano a una considerazione decisiva, non solo nell’ambito dell’analisi storica – come nei contesti a cui si è fatto accenno – ma anche sotto i profili intimi del ricordo. Sergio Luzzato, nipote di un ebreo perseguitato, sintetizza con decisione ne La crisi dell’antifascismo: “Se parliamo di memoria, io desidero e pretendo che la mia e quella di Vivarelli (Roberto Vivarelli, contemporaneista, figlio di fascista ucciso dai partigiani jugoslavi nel ’42, lui stesso ‘ragazzo di Salò’) restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario di tutte le guerre del duce; si tenga la memoria di se stesso, imberbe volontario delle brigate nere. Io mi tengo la memoria del nonno che non ho mai conosciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti “ariani”, prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale”. Di contro, “Il rischio di una memoria condivisa è una ‘smemoratezza patteggiata’, la comunione della dimenticanza”.

(walter falgio)

– Sulla storia di Corrado e Aladino Govoni segnalo anche un bel servizio firmato da Sante Maurizi per La Nuova Sardegna