La città dei bambini non è Disneyland

“Far parlare i bambini non significa chiedere loro di risolvere i problemi della città, creati da noi, significa invece imparare a tener conto delle loro idee e delle loro proposte. Non è facile dare la parola ai bambini, né comprendere quello che dicono. Gianni Rodari parlava di un orecchio acerbo che gli adulti dovrebbero avere per saper ascoltare i bambini”. (Francesco Tonucci, La città dei bambini, Laterza 1996).

 

(17 giugno 2014). Qualche giorno fa con il comitato cagliaritano “Piazzetta San Sepolcro” abbiamo parlato di città dei bambini. Tema per nulla scontato, poco conosciuto e ancor meno frequentato dalle pubbliche amministrazioni. Di che si tratta? O meglio, in primis sarebbe forse il caso di premettere di che non si tratta. La città dei bambini non è Disneyland o Gardaland con alberghi, brand e business associati. No, quelle sono solo iniziative commerciali molto attraenti per i più piccoli finalizzate sostanzialmente a fare cassa. E la città dei bambini non è nemmeno il recinto dei gonfiabili a Monte Urpinu o in via Figari. 

Il pedagogista Francesco Tonucci che tra i primi in Italia ha posto la questione in termini propositivi e ha individuato un progetto concretamente percorribile sotto l’egida del Cnr e a partire dall’esperienza del Comune di Fano, in un libro della metà degli anni Novanta divenuto rapidamente un classico sul tema, scriveva: “La città, cresciuta quasi contro i bisogni dei suoi abitanti, specialmente di quelli più deboli, deve rivedere tutte le sue strutture e le sue articolazioni per diventare adatta per tutti. Per questo vale la pena proseguire nella sfida, nella provocazione di assumere il bambino come parametro, continuando a pensare che quando la città sarà più adatta ai bambini sarà più adatta per tutti”.

Tonucci immaginava una piccola rivoluzione copernicana: abbassare lo sguardo, le maniglie di una porta, i gradini di un bus o quelli davanti a un ascensore, realizzare un luogo pubblico ascoltando il punto di vista di tutti coloro che effettivamente ne usufruiscono a partire dai bambini.

E sono proprio loro, i piccolini, a riservarci le vere sorprese. Perché imprevedibili, perché capaci di usare liberamente la fantasia e la spontaneità, perché in grado di riutilizzare gli spazi secondo le infinite finalità del gioco e quindi di dare dei consigli molto utili a chi quegli spazi deve progettare. E perché portatori e interpreti di tutte le diversità.

Allora ecco che l’idea di riprendersi una piazza (San Sepolcro) cioè di affrancarla in senso lato dalla monocultura commerciale e restituirla all’uso collettivo, alla socialità, all’incontro non vincolato e non vincolante, in qualche modo rientra nella visione di una città più libera per tutti.

Così facendo si rompe il principio di separazione e specializzazione degli spazi urbani per cui il centro storico, per esempio, deve essere esclusivamente votato ai nuclei direzionali, al business, al commercio o al divertimento notturno. Nessuno dice che queste vocazioni possano essere improvvisamente cancellate con un colpo di spugna, sarebbe stupido solo pensarlo, tuttavia una città non vive solo di questo. C’è pure la vitalità autentica di un quartiere (ossia non piegata a una finalità ben distinta) che probabilmente rappresenta l’elemento di maggior qualificazione di un luogo e per questo deve essere difesa con tutte le misure possibili da una pubblica amministrazione.

Gli spazi predestinati e predefiniti dove tutto è sotto controllo come i parchi giochi recintati sempre con gli stessi giochi, le città mercato con le macchinette a gettone, i luna park con i dischi volanti non sono esattamente la migliore soluzione per lo svago dei nostri figli. Meglio un luogo libero, aperto, come dice Tonucci, “spazi ricchi e mossi dove ciascuno può fare ciò che vuole”.

Perché forse non sarebbe male, più che limitarsi a progettare spazi per i bambini, lasciar spazio ai bambini, ovvero dare spazio alla loro autonomia che non ha certo bisogno del nostro controllo o peggio della nostra improvvida ansia genitoriale. Non è facile fare ciò perché occorre molta sensibilità, intelligenza e collaborazione. Ma più autonomia per i bambini vuol dire crescita.

(walter falgio)

PS. Al dibattito promosso dal comitato della “Piazzetta” il 12 giugno scorso, oltre ai qualificati relatori Aide Esu, Maurizio Murino e TaMaLaCà, hanno partecipato amministratori e consiglieri cittadini (Paolo Frau, Francesca Ghirra, Elisabetta Dettori, Filippo Petrucci, Guido Portoghese, Marco Murgia) che ringrazio e con i quali si è aperto un bel confronto anche alla luce della recente adesione del Comune al programma Unicef child friendly cities, Cagliari città amica delle bambine e dei bambini

Di seguito la rassegna stampa sull’iniziativa

L’Unione Sarda 15 giugno 2014

Marraiafura.com

Radio Rai

Radiolina (Aide Esu)

Radiolina (Elisabetta Carta)

Radio X

 

Riporto infine il paragrafo del libro di Tonucci, La città dei bambini (pp. 39-40), dedicato al laboratorio che un Comune può realizzare, ancora attualissimo e illuminante.

Un laboratorio
«la città dei bambini»

Per la realizzazione di questo progetto, di questa nuova filosofia di governo della città, si possono seguire strade diverse. Può essere il sindaco che direttamente informa di questo spirito il suo programma, possono essere invece i cittadini, attraverso movimenti o associazioni che dal basso lo propongono e lo sostengono. Qui si descrive e in qualche modo si privilegia la prima via, seguita a Fano sin dal 1991 e che oggi si ripropone nelle varie città che stanno aderendo a questo progetto: quella che vede il sindaco come referente privilegiato e che prevede l’apertura di un Laboratorio dedicato alla elaborazione e allo sviluppo del progetto «La città dei bambini». Il Comune che apre un tale servizio, che gli dedica personale e risorse, apre di fatto al suo interno una contraddizione forte, ma appassionante.

Il Laboratorio dovrà assumere una funzione prioritaria di «grillo parlante», di coscienza del sindaco e della Giunta, contestandoli ogni volta che la promessa data verrà tradita; e siccome questo avverrà frequentemente, la presenza del Laboratorio diventerà scomoda. Aprire il Laboratorio vuol dire quindi accettare un conflitto permanente perché il contrasto fra il bambino e l’adulto non terminerà mai, si sposterà sempre un po’ più avanti.

Un conflitto però appassionante, stimolo di grande ricchezza e di un dibattito politico di alto livello, perché reale, concreto, lontano dal politichese televisivo. Vuol dire considerare la città come un laboratorio, un luogo di ricerca, dove si è disposti a modificare profondamente l’ottica, le prospettive, gli obiettivi.

Il Laboratorio avrà una funzione «educativa» nei confronti degli amministratori e dei cittadini: dovrà mettere, o rimettere, il bambino nella loro testa. Dovrà cioè aiutare gli adulti a riconoscere i bambini, i loro bisogni, i loro diritti; ad ascoltarli e a capirli. Impresa tutt’altro che semplice, che ha bisogno di preparazione e di grande libertà intellettuale.

Il Laboratorio rappresenterà per l’amministrazione comunale anche un costo, ma un costo relativo. Dovrà avere un bilancio leggero, che gli permetta di operare, se possibile senza ricorso alle sponsorizzazioni, con una certa autonomia e indipendenza, con personale e in locali comunali; di garantire le sue attività con i bambini, di far conoscere le varie iniziative, di poter avere qualche consulenza, se necessaria.

Per il resto, per gli interventi di cambiamento della città, non dovrà avere risorse proprie, ma dovrà «contagiare» i vari assessorati perché si spendano i fondi del bilancio ordinario in un modo diverso, non per cose nuove, ma per realizzare quelle già previste, con un’ottica nuova. Quindi non spendere di più, ma spendere meglio. Compito del Laboratorio non è diventare una struttura che opera in forma autonoma, ma sviluppare dentro l’amministrazione e con l’amministrazione una nuova filosofia di governo della città.

Il pericolo che corre questa proposta è di essere accolta con grande entusiasmo, ma dallo stesso entusiasmo essere emarginata e vanificata. Un segnale preoccupante in questo senso è il frequente voto unanime con cui i Consigli comunali approvano delibere che riguardano queste iniziative legate ai bambini. Se tutti sono d’accordo si può presumere che ritengano che non sia una scelta coraggiosa, che intende produrre cambiamenti radicali; che non si rendano conto che tutto quello che dovremo restituire ai bambini (agli anziani, agli handicappati) dovremo toglierlo a chi finora l’ha avuto come privilegio.

Che non pensino che votare l’adesione al progetto «La città dei bambini» voglia dire rallentare il traffico, ridare spazio ai pedoni, alle biciclette, ridare le piazze alla gente. E allora il timore forte è che di fronte ad una proposta a favore dei bambini non si possa dire di no, ma poi, concessa questa soddisfazione ai piccoli, si riprenda il discorso serio, quello economico, quello del mercato, della competizione, quello dei grandi, là dove lo si era lasciato.