Giudicati, l’epoca dell’indipendenza

Nella seconda metà dell’XI
secolo alcune migliaia di
cavalieri inglesi fuggono
dalla loro terra sottomessa al dominio
normanno di Guglielmo il
Conquistatore. Allestiscono una
grande flotta che avrebbe dovuto
veleggiare verso l’Oriente bizantino
dove si sarebbero messi
al servizio dell’imperatore. Nel
corso della lunga navigazione si
imbattono in un’isola misteriosa.
Convinti di sbarcare in un regno
di “infedeli”, distruggono e
razziano tutto ciò che trovano.
Ma presto si accorgono che l’isola
è cristiana, quindi dal loro
punto di vista civilizzata, e che è
dotata di una organizzazione
politica autonoma. Rinfoderate
le spade gli inglesi restituiscono
il maltolto e si scusano. In segno
di gratitudine “i prìncipi” di Sardegna
consegneranno ai navigatori
stranieri 1300 servi per
rafforzare gli equipaggi.

Con il racconto di questo episodio,
che resta tuttora controverso,
si apre la nuova, attenta,
ricostruzione della storia giudicale
di Sardegna di Gian Giacomo
Ortu (La Sardegna dei giudici,
Il Maestrale, 361 pagine, 23
euro, terzo volume della collana
“La Sardegna e la sua storia”
coordinata da Luciano Marrocu).
Non a caso il libro comincia
dagli sbarchi inglesi attorno all’anno
Mille, perché, se i fatti fossero
del tutto confermati, dimostrerebbero
l’estraneità della
Sardegna all’Occidente cristiano
sino alla vigilia della riforma
gregoriana. «Quasi un mondo
misterioso», scrive Ortu.

Un
mondo che celava un suo coerente
edificio istituzionale. Quattro
giudici che, al di là delle continuità
con Bisanzio o con Roma,
amministravano l’isola con
equivalente dignità. La prima
traccia inequivocabile dell’esistenza
di questa «nuova maniera
di signoria», così come la definiva
Giuseppe Manno, risale al
14 ottobre 1073. È una lettera
che il papa Gregorio VII invia da
Capua a Orzocco di Cagliari, Orzocco
di Arborea, Mariano di
Torres e Costantino di Gallura.
La storia dell’isola dall’XI al
XIV secolo è stata però spesso
letta e interpretata, a diversi livelli,
ricercando la chiave di volta
di un’autentica autonomia e
identità sarda. Piuttosto si potrebbe
affermare che non esiste
una continuità così scontata e
meccanica tra l’esperienza politica
dei giudicati e l’autonomismo
moderno.
Ortu sta compiendo un percorso
di indagine generale sulle
dimensioni del potere politico
che lo ha portato alla pubblicazione
del saggio sullo Stato moderno
(Laterza). Adesso, nel-
N
l’ambito di questa stessa prospettiva
di ricerca, lo storico
esplora le istituzioni dell’isola
medievale.

La Sardegna dei giudici
è un’analisi della società dell’epoca
sotto tutti i profili, con
particolare attenzione alle dinamiche
istituzionali, politiche e
culturali. L’autore, docente di
Storia moderna alla Facoltà di
Scienze politiche dell’Università
di Cagliari, rielabora esclusivamente
fonti dirette privilegiando
immagini, figure ed episodi reali.
Di particolare suggestione è il
risalto narrativo dato ai giudici
Gonario e Adelasia di Torres,
Barisone d’Arborea, Benedetta
di Massa.
Questa ricerca raccoglie e riesamina
gli stimoli di tutta la
grande storiografia sulla Sardegna
medievale a partire dai classici
studi degli storici del Diritto
Enrico Besta e Arrigo Solmi,
passando per il lavoro sulla proprietà
fondiaria di Raffaele Di
Tucci, arrivando agli “Appunti di
storia giuridica sarda” di Enrico
Cortese. Marco Tangheroni e
John Day.

Nel libro di Ortu gli
elementi di analisi rigorosa dei
documenti si fondono con il racconto
ordinato degli avvenimenti.
Pregio che consente di raggiungere,
oltre al pubblico specialistico,
anche una platea di
lettori più vasta.
In conclusione l’autore lancia
una proposta molto stimolante.
Alla luce di una interpretazione
complessiva, unitaria e coerente
degli istituti della sovranità giudicale
sarebbe utile mettere assieme
tutti i documenti che fondano
tale costruzione politica.
Ortu parla di un ideale Codice
politico della Sardegna giudicale
da realizzare concentrando
tutte quelle fonti normative e ordinamenti
medievali sparsi in
archivi diversi o annessi alla memoria
istituzionale di altre comunità,
per esempio gli Statuti
pisani. In questo modo si potrebbe
raccogliere l’eredità culturale
e politica di quell’epoca dei
giudici che non è sbagliato definire
“epoca dell’indipendenza”.