Ha una stanzetta vuota
nel seminario: letto, bagno,
libreria, scrivania,
ma non è un seminarista.
La sua giornata è
scandita da preghiere,
studio e crocifissi, ma
non è un prete. Emanuele
Meconcelli è uno dei
sedici giovani che da un
anno è entrato nella comunità
vocazionale, praticamente
quella che viene
ritenuta l’anticamera
del collegio ecclesiastico
voluta dall’arcivescovo
di Cagliari Giuseppe Mani.
Una via di mezzo tra
un laico e un uomo di
Dio.
Cagliaritano, laureato
in Economia,
trent’anni, e già responsabile
diocesano dell’Azione
cattolica.
Tono di voce e modi di
fare da leader e davanti
a sé un lungo percorso
verso il sacerdozio
che può
durare fino a
nove anni. La
fede, coerente
e abbagliante,
pare non gli
manchi.
Diventare
prete a
trent’anni, in
piena “dittatura
del relativismo”,
come
direbbe il
Papa, e nel
bel mezzo di
una crisi delle
vocazioni:
non si sente
una straordinaria
eccezione?
«La vocazione
è un dono
di Dio che non
è elargito in base a delle
preferenze. Rispondere
oggi a quello che mi
chiede il Signore è per
me l’unica possibilità di
essere felice».
Perché si parla di crisi
delle vocazioni?
«Sentire una chiamata
di Dio presuppone un
cammino di discernimento
e un silenzio che
oggi purtroppo è corrotto
da una società che
cerca di venderti di tutto
».
Lei sta percorrendo
questo cammino?
«Sì, mi trovo in una situazione
in cui c’è silenzio
e quindi posso capire
cosa il Signore vuole da
me».
Ma questo non sempre
è possibile.
«È decisamente molto
difficile che una persona
distratta capisca cosa
Dio le chiede».
Oltre al cielo, anche
l’arcivescovo Giuseppe
Mani l’ha aiutata a trovare
la strada?
«Il mio cammino di discernimento
è precedente
all’arrivo di monsignor
Mani. Però questo
vescovo, che ha un carisma
specifico perché da
vent’anni forma sacerdoti,
mi ha saputo condurre
nella maniera giusta.
Poi nella mia storia
di fede ci sono altre tappe
fondamentali: il prete
a Poggio dei Pini, don Alberto
Medda, la comunità
parrocchiale, l’Azione
cattolica».
Che cosa ha lasciato
per entrare in comunità
vocazionale?
«Lascio una vita in cui
forse decidevo tutto io
per iniziare una vita in
cui la Chiesa mi accompagna.
Fino a pochi mesi
prima di entrare in comunità
ero fidanzato».
Ha ancora senso il celibato
per i preti?
«Il celibato è un grande
dono perché ci consente
di dedicare un
amore esclusivo al Signore
continuando
ad
amare gli altri
ed essendo liberi
».
Suo padre,
Alberto (presidente
Sfirs),
cosa pensa
della sua
scelta?
«Se questa è
la strada che
mi rende felice
anche lui è
felice per me.
Lui dice che
sarebbe orgoglioso
della
mia scelta».
La Chiesa
fa politica?
«No, la
Chiesa ha il
compito di indicare
ai fedeli
quali sono le scelte per
essere in sintonia con gli
insegnamenti di Gesù.
Tenuto conto che viviamo
in un contesto di relativismo,
il Papa non si
stanca mai di richiamarlo,
è necessario sostenere
una verità profonda».
Sui Pacs qual è la verità?
«Che l’amore è tale solo
se si apre alla possibilità
di procreare, è scritto
nella natura: due fiori
maschi non fanno un
frutto».
Ma qui si tratta di tutelare
i diritti civili di
una coppia in uno stato
laico.
«Per questo scopo esistono
altri strumenti nell’attuale
giurisdizione,
non c’è bisogno di un
matrimonio camuffato
da contratto a termine».
Di quali sacerdoti abbiamo
bisogno?
«Di sacerdoti che amino
gratuitamente come
ama Gesù. E amare non
vuol dire necessariamente
portare le persone
dalla propria parte».