Giornata della memoria e l’Italia del non ricordo

(27 gennaio 2014) Giornata della memoria. Perché il 27 gennaio? Si ricorda la liberazione di Auschwitz di 69 anni fa e, dentro questa data simbolica, si concentra tutta la Shoah. Si ricorda, soprattutto nelle scuole, che esistevano campi di sterminio nazisti dove venivano finiti gli ebrei per motivi razziali. Poi si ricorda che la legge del 2000 aggiunge un passaggio fondamentale e compiamo un salto concettuale: non si ricorda solo Auschwitz. Ma anche le leggi razziali italiane, “la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.

Ecco, l’Italia e l’italiano. In casa nostra, quand’anche ancora si fatichi a riconoscere con la dovuta evidenza crimini e responsabilità che tra il 1943 e il 1945 portarono migliaia di ebrei romani ma non solo all’annientamento, spesso e volentieri questa data si trasforma in un ennesimo rituale. Corone d’alloro, presenzialismo, ripetitori e moralizzatori. “Celebrazione: purtroppo ricorre in gran parte dei discorsi della giornata del 27 gennaio, ove purtroppo non c’è nulla da celebrare”, diceva Davide Romanin Jacur della comunità ebraica di Padova nel 2007.

“Il proposito della legge è encomiabile, e tuttavia le cerimonie e le iniziative che lo mettono in pratica sono spesso viziate da una retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente, incline a trasformare la ricostruzione storica del passato in una liturgia”, scriveva la semiologa Valentina Pisanty in un saggio del 2012 che ho avuto modo di richiamare altre volte.

Qual è il punto allora? Che questa data ci deve costringere a studiare sempre più e sempre meglio anche (e non solo) un periodo e dei fatti non sempre opportunamente indagati, o peggio, artefatti dalle insidie dell’industria culturale. L’Italia e l’antisemitismo, la persecuzione dei diritti e la persecuzione delle vite di quasi 8000 ebrei (se ne salvarono 800), come scandisce Michele Sarfatti, è un capitolo ancora grigio e se possibile estromesso dalle priorità del dibattito politico e culturale. Insomma, meglio non ricordare abbastanza.

Nel 1994 lo studioso David Bidussa pubblicava un libretto che si può dire abbia fatto epoca, Il mito del bravo italiano, così recensito sul Corriere da Carlo Formenti: “Quello degli ‘Italiani brava gente’, è un mito che si fonda su un’antica mistificazione autoassolutoria. Ma perché ci ostiniamo a negare le responsabilità storiche di una nazione che, dal ’38 al ’45, ha instaurato una legislazione razziale e ha dato il proprio consenso a una pratica politica razzista? Perché crediamo fermamente alla nostra naturale estraneità al razzismo? La risposta di Bidussa accusa una storiografia che ha stemperato presupposti e circostanze di quanto avvenne allora, sorvolando sulla realtà d’un carattere nazionale che si è espresso anche prima e dopo il periodo più drammatico del regime fascista”.

Mario Avagliano in una intervista andata in onda poche settimane fa in occasione della pubblicazione del suo Di pura razza italiana , ha ripetuto in sostanza lo stesso concetto: “Gli italiani ancora non hanno fatto i conti con la propria storia, tendiamo a scaricare le colpe esclusivamente sui tedeschi”.

Il rigore e la responsabilità vengono in soccorso contro incertezza e lassismo: “La Shoah non è, come ci si è a lungo raccontati, un increscioso incidente di percorso, frutto di ‘incosciente faciloneria’ piuttosto che di una reale e diffusa intenzione omicida – come se non ci fossero sfumature intermedie – ma un crimine anche italiano che per decenni gli italiani hanno spazzato via a colpi di amnistia e di amnesia. Non per niente ci sono voluti quattro anni prima che Furio Colombo riuscisse a far discutere la proposta di legge in parlamento: evidentemente nessuna delle parti politiche interpellate aveva particolare premura di affrontare la questione”, scrive sempre Pisanty.

La storia, quindi l’indagine critica, la comparazione, il confronto e l’analisi delle fonti consentono di raggiungere l’obiettività necessaria anche nei terreni più impervi. A questo si aggiunge appunto la responsabilità, verso chi impara e verso chi a volte ci ascolta. Una responsabilità che sempre più si perde e si indebolisce dinanzi a surrogati vari di nozioni e informazioni, dinanzi alla “potenza del presente”, come appunta lucidamente Stefano Levi Della Torre: “Ne La crisi della civiltà del 1935 Johan Huizinga osservava come la potenza straordinaria della “protesi” tecnica metta in luce una drammatica sproporzione: quella tra potenza e responsabilità. Adesso si tratta di parlare anche di una nuova potenza, quella della virtualità telematica, la potenza del presente, dell’immediato. Il senso di responsabilità stenta a tenere il passo con la crescita della potenza di cui dispone”.

(walter falgio)

Breve bibliografia

Mario Avagliano, Marco Palmieri, Di pura razza italiana, Baldini&Castoldi 2013

Valentina Pisanty, Abusi di memoria, Bruno Mondadori 2012

Michele Sarfatti, La Shoah in Italia, Einaudi 2005

Michele Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi 2002

David Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore 1994

Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza (catalogo mostra), Grafis 1994