Così il fumo delle torri sarde fermò le incursioni dei mori

Torri costiere e castelli di Sardegna
superstar. Oggi in onda
su RaiUno (Lineablu ore 14),
questa estate in edicola con un
quaderno allegato a Darwin,
prestigioso bimestrale di
scienze finanziato dalle fondazioni
Veronesi e Tronchetti
Provera. E poi al centro della
ricerca storica: in un recente
convegno internazionale, Contra
Moros y Turcos, a Villasimius,
si è fatto il punto su “Politiche
e sistemi di difesa degli
Stati mediterranei della Corona
di Spagna in Età moderna”.
Il rinnovato interesse scientifico
e anche mediatico sui presidi
spagnoli e sulle rocche
medievali dell’isola nasce nelle
stanze del Dipartimento di
Studi storici dell’Università di
Cagliari e dell’Istituto di Storia
dell’Europa mediterranea
(Isem) del Cnr.

In un articolo ancora inedito
scritto in occasione di un recente
convegno tenuto a Granada,
lo storico Gianni Murgia
fa il punto sui problemi di difesa
in Sardegna tra Cinque e
Seicento. Dopo la capitolazione
del presidio de La Goletta,
nel 1574, e la riconquista di
Tunisi tre anni dopo, la pressione
turca nel Mediterraneo
si confermava molto forte. In
seguito a questi avvenimenti,
soprattutto, gli spagnoli perdevano
l’avamposto africano più
orientale ed erano costretti ad
arretrare la frontiera difensiva.
«In questo nuovo contesto
politico-militare la Sardegna,
che fino ad allora aveva svolto
un ruolo secondario nello
scacchiere difensivo mediterraneo,
seppure importante,
ora tenderà a ricoprire quello
di avamposto di una frontiera
insulare», annota Murgia,
«confine invisibile tra paesi
cristiani e musulmani». Dopo
il rovescio tunisino si poneva
dunque il problema di non facile
soluzione del potenziamento
della difesa della Sardegna,
«la cui ossatura nevralgica
– continua Murgia – era costituita
dalle tre piazzeforti
marittime della capitale del regno,
la città di Cagliari, dalla
catalana Alghero e da quella di
Castellaragonese», attuale Castelsardo.

Le incursioni barbaresche
non davano tregua all’isola,
spiega Daniele Vacca, neo dottore
di ricerca in Storia moderna:
«Accadeva spesso che i
corsari o i pirati rimanessero
nascosti a ridosso delle coste
per svariati mesi dell’anno,
pronti ad assalire di soppiatto
». Come capitò nel 1582,
«quando gli assalitori riuscirono
a sbarcare nella spiaggia di
Quartu e a mettere a ferro e a
fuoco le ville di Quarto, Quartucciu,
Pirri e Pauli, fermandosi
alle porte di Cagliari».
La Sardegna doveva essere
protetta con urgenza: lo segnalava
anche il Granduca di Toscana
a Filippo II nel 1574. La
rete difensiva costiera veniva
ricostruita a partire dal 1591.

Alla fine del Seicento le torri
sul mare erano già 82. Alla loro
sommità «erano collocati
grandi padelloni, contenitori
di ferro battuto per i fuochi, e
griselle, cestelli di ferro nei
quali si bruciava erica bagnata
e bitume per le fumate», descrive
ancora Murgia. Ma nonostante
gli sforzi per rafforzare
la sicurezza dell’isola, la
difesa continuava ad essere
molto precaria anche perché
le torri avevano solo il compito
di segnalare i pericoli e dare
l’allarme e gran parte di esse
erano prive di armamento
pesante.
«Ora, di quelle torri realizzate
a più riprese soprattutto
nel corso del XVI e del XVII secolo,
spesso a costi troppo alti
o con progettazioni sommarie,
non rimangono che le testimonianze
materiali», commenta
la ricercatrice del Cnr Maria
Grazia Mele su Darwin. Si pone
quindi l’esigenza di una valorizzazione
dei monumenti
per far sì che diventino nuovamente
una rete di collegamento
con il territorio circostante.
La Mele ricorda anche l’uso
delle tecniche multimediali,
«così come proposto per la torre
di Santa Maria Navarrese».

Le antiche fortezze costruite
sulla frontiera tra Islam e Cristianità,
«esaurita già da tempo
la funzione difensiva, devono
costituire un tramite con
l’altra sponda del Mediterraneo
», auspica la ricercatrice.
E segnala che in collaborazione
con il Csic di Madrid (Consejo
superior de investigaciones
cientificas), l’Isem del Cnr
ha varato un importante progetto
di studi sul sistema di difesa
mediterraneo della Corona
di Spagna al quale collaboreranno
decine di Università.
Giovanni Serreli, anche lui
del Cnr, curatore insieme a
Maria Grazia Mele degli atti
del convegno Contra Moros y
Turcos che saranno pubblicati
a breve, si occupa da anni di
castelli medievali. Conosce
palmo a palmo la rocca della
Marmilla a Las Plassas, costruita
per vigilare il meridione
dello stato arborense, o
quella di Acquafredda. «Come
spiegare l’esistenza fin dal
principio del XIII secolo del castello
di Siliqua», si domanda
Serreli, «lontano cioè dai confini
statuali e quasi nel cuore
del Regno di Càlari?». Ed è qui
che si aprono gli scenari più
suggestivi: «Il castello esisteva
almeno dal 1251, ma la sua
cappella dedicata a Santa Barbara,
è di certo precedente e
risale almeno al XII secolo».
Siamo in presenza, verosimilmente,
di un edificio bizantino,
«un castrum sede di una
guarnigione contro i mauri
esiliati nel Sulcis». Da non dimenticare
che sotto la rocca
passava una importante strada
romana che collegava l’antica
Càrales con Sulci, oggi
Sant’Antioco. Solo alla fine del
Regno di Cagliari, 1258, il maniero
di Acquafredda entrò in
possesso del celebre conte
Ugolino «che lo fece riedificare
a guardia dei suoi possedimento
sardi». E qui la storia
diventa leggenda.