Come tradurre in limba l’architettura dell’Isola

Sembrava che di Antonio Simon
Mossa nessuno volesse
più parlare. Dalla sua
morte, avvenuta nel 1971, poco
o nulla era stato detto e scritto su
di lui. Personaggio difficilissimo
da raccontare, l’architetto aveva
lasciato tuttavia segnali tangibili
e inequivocabili del suo sfaccettato
impegno professionale e
politico. I trent’anni di imbarazzante
silenzio erano stati interrotti
nel 2003 da un convegno
internazionale organizzato a
Sassari dalla Consulta per la promozione
della lingua e della cultura
sarda. Qualche giorno fa a
Cagliari l’associazione Shardana
ha presentato gli atti di quell’iniziativa.
Cinquantatre interventi
ordinati in seicento pagine dagli
storici Federico Francioni e
Giampiero Marras: “Antonio Simon
Mossa. Dall’utopia al progetto”
(Edizioni Condaghes, 18
euro).

Un’esplosione di testimonianze
a dimostrare che l’aver
taciuto per diversi lustri non ha
portato all’oblio. Anzi.
Nato nel 1916 a Padova, documentarista,
regista, pioniere
di Radio Sardegna, giornalista
tagliente sul Solco, sulla Nuova,
su Ichnusa. Architetto della Costa
Smeralda ma non solo, leader
del Partito Sardo d’Azione,
poliglotta e internazionalista.
Sebbene sia molto arduo sintetizzare
il poliedrico impegno di
Simon Mossa, l’accademico dei
Lincei Giovanni Lilliu isola un bel
ritratto dell’uomo politico: «Sembra
di poter vedere in lui un eroe
romantico di un partito giovane.
Di uno di quelli descritti da Tocqueville:
“Quando nascono i partiti
politici hanno per qualche
tempo gli attributi della giovinezza.
Nelle loro passioni e nei loro
eccessi vi è generosità, tensione,
dedizione”». La politica era indubbiamente
al centro della vita
di Simon Mossa.

Il suo anelito
verso l’indipendentismo nasceva
da un interrogativo molto
chiaro: «Si chiedeva se l’autonomia
così come è stata concepita
S
sino ad oggi avesse risposto ai
desideri dei sardi», riflette Bachisio
Bandinu. Secondo l’antropologo
la strada indicata dall’intellettuale
porta coerentemente
a uno stato sardo basato su una
forte coscienza linguistica. Concetto
su cui insiste il docente
Francesco Casula e il leader di
Sardigna Natzione Bustianu
Cumpostu.
Ma il carattere marcatamente
identitario del pensiero di Simon
Mossa si coglie soprattutto nella
sua architettura. «A partire dal
Museo delle tradizioni popolari
di Nuoro e dalla Escala del cabirol
di Alghero, le sue opere riflettono
il legame con la cultura
sarda, con i suoi materiali, con i
suoi luoghi», spiega lo storico
dell’architettura Franco Masala.
Straordinaria la sua attenzione
per l’ambiente: «In questo come
in tanti altri aspetti precorreva i
tempi», continua Masala. La vertiginosa
scalinata che da Capo
Caccia porta alle Grotte di Nettuno
costruita nel 1954 è uno dei
primi interventi di valorizzazione
di un percorso naturale con
finalità turistiche. Il progetto era
stato pensato dall’architetto senza
sconvolgere la parete rocciosa,
mimetizzando pietra su pietra,
esaltando l’ardita verticalità
del paesaggio. È nella sua Alghero
che l’intellettuale coglie le notevoli
potenzialità di uno sviluppo
turistico sistematico. «Era
contrario all’improvvisazione e
credeva in un coordinamento
delle diverse realtà territoriali»,
dice Masala.

La volontà precorritrice
di realizzare un programma
turistico a lungo termine per
la Sardegna, la sua inconfondibile
architettura identitaria e sostenibile
fatta di archi catalani e
latte di calce, portano Simon
Mossa al soglio del principe. L’Aga
Khan lo vorrà nell’equipe dei
suoi consulenti per l’ideazione
della Costa Smeralda. Si trattava
di un Comitato di Architettura
composto da nomi prestigiosi come
Martin, i Busiri Vici, Couëlle,
Rohan, Vietti, Rastrella. «Il compito
di Simon Mossa in questo
gruppo era quello di tradurre in
limba il progetto, immettere un
valore aggiunto costituito dai richiami
alla tradizione», aggiunge
l’architetto Giovanni Pigozzi,
«il tutto lontano dai gigantismi
applicati alle coste sarde che nulla
hanno a che vedere con il paesaggio
dell’Isola». L’intellettuale
algherese «era profondamente
contrario al folklore banalizzato
e irridente, al dileggio mediatico
della lingua sarda, alla riduzione
a macchietta della cultura tradizionale
», argomenta lo scrittore
Alberto Contu.
Di questo “poeta di armonie
territoriali, urbanistiche, umane
e politiche”, come amava definirlo
il leader sardista Mario Melis,
resta ora un documento ordinato.
Un primo passo per comprendere
il pensiero frastagliato
di Simon Mossa, per penetrare il
suo schietto e ruvido linguaggio
politico, come emerge dalla lettura
di una corrispondenza inedita
riscoperta da Federico
Francioni. Per individuare la
geografia del suo impegno internazionalista
ben descritta da
Giampiero Marras.

In fondo Simon
Mossa «era un po’ come i
fantaccini della Brigata Sassari
nelle giornate del giugno sul Piave
», scrive lo storico Manlio Brigaglia:
«Li caricavano sui camion,
e dove gli austriaci aprivano
le falle loro si precipitavano a
turarle. Lui era così: appena
qualcosa andava storto, subito
“metteva lingua”».