(30 gennaio 2021) Claudio Vercelli, torinese, docente di storia dell’ebraismo all’università Cattolica di Milano, studioso dell’Europa contemporanea, dei totalitarismi novecenteschi e del Medio Oriente, racconta la vicenda dei Bibelforscher, gli studenti biblici, i testimoni di Geova perseguitati dal nazismo. L’intervista è stata pubblicata in forma ridotta sulla testata B-Hop magazine. Qui segue la versione integrale.
Vercelli ha pubblicato, tra l’altro, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, Storia del conflitto israelo-palestinese, Soldati. Storia dell’esercito italiano, 1938 Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia, Il negazionismo. Storia di una menzogna, e Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei lager nazisti.
Professor Vercelli, nell’ambito della persecuzione delle minoranze da parte del regime nazista si inquadra un caso specifico e misconosciuto come quello dei triangoli viola, ovvero il simbolo distintivo che nei lager veniva attribuito ai testimoni di Geova. Come definire il fenomeno dal punto di vista storico?
Le discriminazioni prima, e le persecuzioni poi, si iscrivono in una linea di indirizzo precisa del regime nazionalsocialista e dei fascismi europei: la funzione è quella di stabilire una sorta di conflitto, ancorché tanto figurato quanto inesistente, tra una maggioranza definita in termini razziali e minoranze definite in termini di appartenenze inferiori, ovvero di esponenti di un gruppo socialmente disprezzabile e come tale, emarginabile. Nel caso dei testimoni di Geova però non si trattava specificamente di persecuzioni di natura razzista ma della identificazione di un insieme di “ariani” che non si comportava secondo quelle che erano le regole vigenti all’interno del regime. Tali regole indicavano che si è parte di una razza superiore se si adottavano le condotte che il regime medesimo prescriveva a tutti, indistintamente.
Quali sono le ragioni che hanno determinato un faticoso accoglimento della vicenda dei triangoli viola entro il corpus europeo della storia delle deportazioni? Questa dinamica coincide in parte con quanto accaduto per lo sterminio di rom e sinti?
I testimoni di Geova appartenevano a una confessione religiosa minoritaria. Nella società tedesca gli elementi cattolici e protestanti erano dominanti. È evidente che i geoviti – pur figliandosi per più aspetti dalla radice protestante e mantenendo comunque una propria autonomia – non fossero assimilabili a questi due grandi gruppi. Per il regime nazionalsocialista questo elemento rappresentava un riscontro carico di conseguenze. Ciò significava che la denominazione dei testimoni di Geova non era tutelata da nessuna appartenenza prevalente, che non vi era alcun clero o chiesa ai quali rendere conto di una sua eventuale persecuzione, ma voleva anche dire che questi soggetti erano del tutto alieni dalla omogeneizzazione ideologica che il nazismo medesimo cercava di garantirsi nei confronti di tutti i gruppi cattolici o protestanti. Rispetto ai rom, sebbene si riscontrassero molte differenze, sia dal punto di vista sociale e culturale sia storico, è non meno vero che in Germania e in Europa i testimoni di Geova condividevano il fatto di essere dei gruppi non assimilabili non solo a quelle che erano le condotte prevalenti ma anche agli indirizzi di ordine ideologico che il nazionalsocialismo imponeva alle maggioranze sociali dominanti. La diversità degli uni e degli altri conferma un elemento di insindacabilità e di inalienabilità, ovverossia l’essere fortemente legati alla propria radice identitaria.
Nei suoi studi si sofferma sulla complessa e sofferta articolazione della testimonianza e dell’assunzione della consapevolezza della violenza subita che prefigura, da parte dei testimoni di Geova, un rapporto di cesura con il passato. Quali sono i fattori all’origine di quello che potremmo definire una sorta di “corto circuito”?
Prima di tutto è necessario prendere le mosse dalla specificità identitaria e culturale dei testimoni di Geova e dalla loro difficoltà di narrazione autobiografica. Altri gruppi, tra i quali non sono compresi i sinti e i rom, ma per esempio gli ebrei o i “politici”, si sono raccontati poiché avevano gli strumenti e la disposizione d’animo per farlo, perché avevano le parole per comunicare il senso della sofferenza e dell’offesa subita, e per consentire che tutto ciò diventasse materia condivisa entro i limiti dell’ascolto altrui. Per i testimoni di Geova la vicenda delle persecuzioni e della deportazione naziste si articola all’interno delle dinamiche di gruppo che frantumano una identità e una soggettività a sé stanti, non separata dal mondo, ma per più aspetti autosufficiente. Si tratta di un fenomeno complesso, uno tra i motivi per cui il lascito della loro esperienza è stato molto più difficile rispetto ad altre storie che invece parlano una lingua e usano una sintassi e una grammatica più comprensibili al resto della collettività. Abbiamo a che fare con un gruppo che non era propriamente distante dalla realtà, bensì viveva il mondo con elementi propri e affrontava la violenza subita dal regime totalitario in una modalità specifica: ovvero rielaborandola all’interno delle sue filiere organizzative e di relazione, senza operare un esercizio di esposizione esterna, tale da renderla divulgabile. Questo, nel momento in cui se ne vuole ricostruire la storia, è un problema non da poco. Non riguarda ovviamente solo i testimoni di Geova, ma appella la capacità di ascolto e di rielaborazione critica della testimonianza necessarie per affrontare e analizzare la complessità e il significato politico delle violenze naziste. La vera sfida, ancora oggi irrisolta, è quindi riuscire a comprendere questi processi nella loro complessità, indagando sulla stratificazione dei regimi totalitari novecenteschi.
La resistenza degli studenti biblici è stata molto salda, al punto tale che per spezzarne la forza psicologica la Gestapo fu costretta a minacciare e a esercitare ripercussioni violente sui congiunti, oltre alle vessazioni e alle torture sui prigionieri nei campi di concentramento. Senza considerare la condanna ai manicomi nei processi farsa che bollavano come pazzi i componenti della confessione. Perché Hitler temeva così tanto questa minoranza religiosa?
Il nazionalsocialismo, così come i fascismi europei, non si poneva come obiettivo alcuna forma di eguaglianza, bensì una uniformità di condotte e di pensieri. Questa è una discriminante fondamentale per comprendere la differenza tra le democrazie sociali nelle quali viviamo e quei regimi totalitari capaci di sedurre intere folle. La denominazione dei testimoni di Geova minacciava questa unitarietà conformistica, pur non avendo la capacità di metterla in discussione per via delle evidenti sproporzioni numeriche. All’epoca, su 70 milioni di tedeschi, solo 25mila complessivamente aderivano ai testimoni di Geova; si trattava pertanto di una piccola minoranza. Tuttavia, per il regime la persistenza di questo gruppo non omologabile rappresentava una pericolosa forma di opposizione nei fatti.
A quali ceti sociali appartenevano i testimoni di Geova perseguitati?
I ceti di appartenenza allora erano modesti, composti da lavoratori, spesso provenienti dai processi di re-immigrazione dall’America verso l’Europa. Si facevano interpreti di una rilettura critica e analitica ma non polemica dei testi biblici. I testimoni di Geova hanno avuto un impatto sociale legato alla predicazione entro una sorta di trasversalismo che recupera aspetti del dettato dell’Antico testamento e che incide sulle preesistenti dimensioni culturali, non solo in Germania. Al contrario di una parte del contesto europeo degli anni Trenta e Quaranta, nella predicazione geovita lo spazio accordato ai miti della razza è inesistente.
Come è stata elaborata la vicenda dei triangoli viola a livello sociale nel secondo dopoguerra? Quanto ha pesato il pregiudizio, determinato spesso da fattori di contrapposizione ideologico-religiosa, sul ritardo, non solo nell’acquisizione della testimonianza, ma anche nella semplice presa d’atto della sua esistenza?
Effettivamente si è verificata una rimozione. Nei campi di concentramento nella seconda metà degli anni Trenta, quando si trovavano prigionieri politici ma non ancora razziali, la presenza dei triangoli viola è stata quantitativamente rilevante. Questo dimostra che la loro posizione morale e civile all’epoca ebbe un impatto importante anche politico. Tuttavia, questa storia non è stata recepita ma elusa; è stata omessa se non rifiutata. Il problema all’origine di questo processo non risiede certo in colui che è rifiutato ma in coloro che rifiutano. Tuttavia è doveroso comprendere e integrare la loro storia e la loro differenza all’interno della nostra narrazione. E’ un tema complesso ma ineludibile che riguarda l’incapacità di cogliere modalità di rappresentazione non assimilabili alle dinamiche di comportamento e di ragionamento prevalenti. Nella ricostruzione storica bisogna capire anche i linguaggi e le tante traiettorie altrui, recependo il tema più ampio e profondo delle molteplici resistenze morali, spirituali e civili del Novecento.
Esistono strumenti per la divulgazione di questa storia anche a scopo didattico?
Nel raccontare la storia dei testimoni di Geova siincontrano oggettive difficoltà, non solo in relazione ai prevedibili meccanismi che entrano in gioco quando si parla di essi in un contesto didattico, ma anche a causa della non semplice comunicazione con la denominazione e con le congregazioni. È necessario superare dei vincoli che, per chi non si riconosce nei testimoni di Geova, consistono nella diffidenza, mentre, per chi è partecipe della confessione, consistono nell’interpretare la storia della deportazione come un dato esclusivamente interno e autobiografico. Per cogliere la complessità della vicenda dei triangoli viola evitando di scadere nell’apologia o nel rifiuto, bisogna prendere le mosse da questi presupposti: una società è tanto più pluralista quanto più raccoglie discorsi che non sono facilmente declinabili in un unico linguaggio dominante. Ciò è parte della radice del discorso democratico in quanto tale e afferma la consapevolezza che la storia non si racconta con la pretesa della reciprocità ma per soddisfare la ricostruzione nei limiti della capacità di comprensione.
Negli ultimi anni i dibattiti sul ruolo della memoria nel confronto pubblico sono cresciuti enormemente. Un uso smodato della memoria ripropone la necessità di una trasmissione del passato nel rispetto della verità storica e indipendente dai condizionamenti del presente. In proposito, che suggerimenti dare anche a chi assolve il compito dell’educatore in rapporto con le giovani generazioni?
Dico subito una cosa impegnativa: la memoria è un fatto politico, non riguarda il passato ma il presente. Va da sé che la memoria non può esulare dal passato, ma nel medesimo tempo deve in qualche modo riflettersi sull’azione dell’oggi. Qualsiasi memoria attiva funziona se si trasfonde in un agire politico consapevole. La storia delle persecuzioni e delle deportazioni nell’età dei totalitarismi ha un senso se viene riannodata al tempo che viviamo. Se invece si limita a un puro memento di ciò che fu rischia di rivelarsi infeconda. Ma come evitare una pedagogia predicatoria, privilegiando semmai una comunicazione e una dimensione civile e costruttiva? Riconoscendo un passato che non è solo il “tuo” o il “mio” ma quello di un contesto, dell’ambiente, dello spazio e del tempo in cui si viveva. Purtroppo, però, assistiamo a una grave crisi della politica che rende tutto più difficile nonostante l’Europa abbia cercato, sia pure in forme molto diverse, di fare un uso virtuoso delle sue memorie. Nel nostro tempo non occorre un’inflazione di ricordi, ma la capacità di sintesi del passato per lavorare su un presente che è in fondo la terra più problematica e oscura su cui ci si deve orientare.
(walter falgio)