Archivi autore: Walter Falgio

Un ricordo di Sergio Siglienti

(27 maggio 2020) Sergio Siglienti, intellettuale e banchiere sassarese, è mancato a Milano il 24 maggio scorso all’età di 94 anni. Ospito con grande piacere questo ricordo dello storico dell’economia, Alessandro Mignone. (wa.f.).

Con Sergio Siglienti se ne va un pezzo di storia economica e finanziaria del nostro Paese. Banchiere per una vita, nasce a Sassari il 19 maggio 1926 da Stefano, ministro delle Finanze nell’Italia non ancora liberata dal nazifascismo, poi per lunghi anni al vertice dell’Istituto Mobiliare Italiano e dell’Associazione Bancaria Italiana, e da Ines Berlinguer, appartenente a una delle più importanti famiglie sassaresi. Piccola aristocrazia isolana “senza feudi né decime”, il cui padre Enrico, tra i fondatori de “La Nuova Sardegna” e in contatto diretto con Garibaldi, fu tra i massimi interpreti degli umori di una città a forte tradizione mazziniana, repubblicana, democratica.

Entrambi i genitori furono tra i protagonisti della Resistenza capitolina: arrestato dalle SS nel suo ufficio, il padre scampò all’eccidio delle Fosse Ardeatine dopo una rocambolesca fuga orchestrata dalla moglie, seconda a nessuno in quanto a coraggio. Durante la guerra Sergio resta invece al riparo in Sardegna, ospite dello zio Mario Berlinguer, padre di Giovanni e di Enrico, quest’ultimo futuro e indimenticato segretario del PCI. Insomma, Sergio Siglienti cresce in un ambiente familiare colto, ricco di stimoli, con una lunga storia democratica e antifascista, che senza dubbio influisce sulla sua formazione e sul suo modo di essere, retto e integerrimo: “una persona perbene”, si legge negli articoli di questi giorni.

Un ambiente anche borghese e benestante, ma senza esibizionismi o ostentazioni, come egli stesso rammenta in una vecchia intervista del 1992, in cui racconta di quando accompagnò il padre al VI Congresso del Partito Sardo d’Azione a Macomer, nel luglio 1944: “Avemmo una disavventura durante il viaggio da Sassari a Macomer: la macchina che ci accompagnava si guastò, si bucò una gomma. Allora, chiedemmo un passaggio ad un camionista che trasportava mercanzia varia. Mio padre si mise in cabina con il guidatore, ed io all’aperto. Arrivammo così a Macomer. Il guidatore fu gentilissimo nell’accompagnarci senza sapere neanche chi fosse mio padre: sapeva solo che andavamo al congresso sardista e cambiò strada per accompagnarci esattamente lì. Quindi, il ministro delle Finanze arrivò così, altro che auto blu e la scorta di oggi!”.

Giovanissimo, nel 1951 Sergio Siglienti entra nella Banca Commerciale Italiana per volere di Raffaele Mattioli: non la lascerà più, nemmeno quando nel 1979 Francesco Cossiga gli propone la carica di direttore generale della Banca d’Italia al posto di Carlo Azeglio Ciampi, nominato Governatore. Nel 1987 diventa amministratore delegato dell’istituto milanese e tre anni più tardi presidente. Lascia nel 1994, quando l’IRI cede la banca di Piazza della Scala, avviandola alla privatizzazione. Da sempre sostenitore del connubio pubblico-privato, fu molto critico circa i modi dell’operazione e il ruolo di Mediobanca, tanto da pubblicare due anni dopo un libro dal titolo eloquente: Una privatizzazione molto privata: Stato, mercato e gruppi industriali. Il caso Comit.

Sarebbe riduttivo, tuttavia, ricordarlo solo come banchiere. Sergio Siglienti è stato anche uomo di cultura, raffinato e sempre pronto alla citazione: lasciata la banca assume infatti la presidenza dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, istituto napoletano fondato nel secondo dopoguerra da Benedetto Croce, succedendo a Giovanni Spadolini.

Alessandro Mignone

(Libero ricercatore, storico e archivista. Ha collaborato a lungo con l’Archivio storico di Intesa Sanpaolo, di cui è coautore della Guida generale ai patrimoni archivistici (Hoepli, 2016). Tra i suoi ultimi lavori, il documentario “De limo fertilis resurgo” sulle bonifiche in Sardegna (Padova University Press, 2020) e la biografia di Stefano Siglienti (in corso di pubblicazione).

L’isola dei militari

(23 maggio 2020) “L’arcipelago del movimento antibasi sardo è un’aggregazione trasversale e sfaccettata che interpreta un sentimento diffuso e si radica in uno specifico contesto territoriale e culturale: «‘Resistenza’ al colonialismo significava di più che semplice resistenza al dominio degli italiani. Come molte isole, e secondo una valutazione antica di secoli, se non di millenni, la Sardegna era ritenuta strategicamente importante. Inoltre, con le grandi estensioni di terra sottopopolata era il luogo ideale per l’addestramento militare», scriveva lo storico inglese Martin Clark nel 1989.

Le svariate forme di opposizione alla presenza militare nell’isola, piattaforma di servizio durante la Guerra fredda e ancor oggi nell’ambito degli interessi di una global Nato, sono oggetto di un ampio dibattito. Ne derivano i contorni di un tema di studio sulla storia politica e sociale della Sardegna del secondo dopoguerra tanto peculiare quanto poco indagato. Si propone qui una ricostruzione ancorché parziale della vicenda sarda prendendo le mosse dagli schemi interpretativi e dagli inquadramenti storici sul movimento nonviolento e antimilitarista nell’Italia del Novecento…”.

In due puntate su Storie in movimento un mio articolo che prova a tracciare una prima riflessione sulle diverse forme di opposizione alla presenza militare in Sardegna.

Prima puntata

Seconda puntata

Le fotografie sono state gentilemente concesse da Sandro Martis.

(wa.f.)

Giaime, una clip per raccontare i valori vivi della Resistenza 75 anni dopo

(25 aprile 2020) L’Issasco ricorda l’antifascista di origini sarde Giaime Pintor con una lettura corale delle sue ultime parole al fratello Luigi.

“Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo”. Sono queste le ultime, celebri parole che l’antifascista di origini sarde, Giaime Pintor, ha scritto da Napoli al fratello Luigi il 28 novembre 1943, pochi giorni prima di morire, e che l’Issasco (Istituto sardo per l’antifascismo) ha scelto per celebrare il 75esimo anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Giaime è una clip di dieci minuti autoprodotta pubblicata il 25 aprile nei profili Facebook e YouTube  dell’Istituto in cui dodici persone leggono e interpretano dalle proprie case e con strumenti non professionali il messaggio di Pintor. Una lettura corale dove una studentessa, un medico, un’educatrice, una farmacista, insegnanti, ricercatori, giornalisti, studiose e studiosi ripropongono nella quotidianità un esempio di straordinaria onestà intellettuale, un’acuta testimonianza sulla necessità di assumere il proprio destino nei momenti decisivi della vita pur nella consapevolezza dei propri limiti.

“Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato di emergenza. Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti”, scriveva l’intellettuale e fine letterato Pintor. Il messaggio di un giovane uomo che a 24 anni, come tanti nello stesso periodo, decideva di combattere contro l’oppressione, l’intolleranza, la prevaricazione senza per questo essere un eroe o un predestinato. Un messaggio attuale, vivo, che l’Istituto sardo per l’antifascismo ripropone in una circostanza complicata e tortuosa come quella che l’umanità oggi attraversa nel fronteggiare la pandemia.

La Resistenza è stata una guerra combattuta senza coscrizione, per scelta e per convinzione, da giovani uomini e donne comuni. A 75 anni dalla fine di quella guerra che ha visto anche il sacrificio di molti sardi, il valore e l’integrità della “scelta” restano immutati e si trasformano in strumenti e bagaglio fondamentali per ricostruire e rinsaldare tutti i giorni e in tutte le nostre manifestazioni le basi di qualunque convivenza civile: la libertà, l’uguaglianza, la pari dignità.

Il 1 dicembre, a Castelnuovo al Volturno, nel tentativo di oltrepassare le linee nemiche per raggiungere le formazioni partigiane, Giaime Pintor morì dilaniato dallo scoppio di una mina tedesca. “Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili”, scrisse Giaime Pintor.

Dapprima diffusa dattiloscritta a cura di amici, la lettera è stata pubblicata in forma ridotta per la prima volta in un opuscolo commemorativo nel 1946, In memoria di Giaime Pintor, (Einaudi, 1946). Nella sua versione integrale si trova in Giaime Pintor, Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (1939-1943), a cura di Valentino Gerratana, (Einaudi, 1950).

L’iniziativa Issasco partecipa alla campagna social #RaccontiamolaResistenza avviata dall’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri” e dagli altri 65 istituti della rete il 29 marzo su Facebook, Twitter e Instragram. Aderiscono alla campagna tutte le associazioni di reduci e di partigiani, le principali società storiche, la rete “Paesaggi della Memoria” con la partnership di Rai Storia e di Rai Cultura.

Grazie a:
Emilia Agnesa (attrice, insegnante)
Bachisio Bachis (Archivio Distratto)
Francesco Bachis (ricercatore, Issasco)
Michela Calledda (Archivio Distratto)
Michela Caria (insegnante)
Lucia Cossu (insegnante)
Walter Falgio (giornalista, Issasco)
Raimondo Garau (medico)
Sara Lawlor (studentessa)
Paolo Piras (giornalista)
Gisella Saiu (educatrice)
Marinella Stochino (farmacista)

Architettura: le radure o nuovi spazi di felicità urbana

(1 ottobre 2019) Riceviamo e volentieri proponiamo questo scritto dell’economista Lorenzo Bona e del progettista Luca Sanna. (wa.f.)

(Verso) design con self-control – (Towards) design with self-control

di Lorenzo Bona e Luca Sanna

Interrelazioni storicamente problematiche hanno tenuto e tengono insieme società, economie e i relativi territori di sviluppo. E al riguardo, assumono speciale rilevanza i rapporti tra gli spazi abitativi creati dagli uomini e la natura circostante, tra centro e periferia, tra gli scambi mutualmente vantaggiosi e quelli impoverenti.

Architetti, urbanisti, economisti, esperti e policy makers dibattono e si confrontano con crescente intensità sull’evoluzione di questi rapporti per capire come si possano realizzare o favorire equilibri socio-ambientali migliori di quelli emersi sinora. Si riflette sull’attuale configurazione dello sviluppo economico e urbano, valutando quali siano stati gli esiti prodotti dal suo stesso divenire, mettendo a confronto benefici e costi. Da un lato, non sfugge che tale sviluppo ha solitamente coinciso con fenomeni di urbanizzazione e di costituzione di città che sono stati, a loro volta, accompagnati da un innalzamento dei livelli di alfabetizzazione ed istruzione scolastica, di ingresso nel mondo del lavoro, di accesso a servizi di assistenza sanitaria e sociale; dall’altro, si osserva, tuttavia, in modo sempre più insistente, che il costo di questi miglioramenti socio-economici trova un riflesso in una preoccupante espansione dell’inquinamento di numerosi territori, nell’abbandono e nel degrado di molti centri urbani, nella creazione di periferie in crescente stato di emarginazione.

In questo quadro si allarga anche il senso di preoccupazione per l’inadeguatezza di molti luoghi abitati e costruiti ad offrire riparo sicuro davanti a shock naturali, come terremoti e maremoti, caratterizzati ancora da una terribile imprevedibilità, nonostante gli enormi progressi della scienza moderna.

Quale atteggiamento e che posizione assumere davanti a tutto ciò?

Possibili spunti per l’elaborazione di utili risposte a domande come questa potrebbero provenire da una riflessione, forse ancora largamente in divenire rispetto alle sue premesse teoriche, come pure nell’insieme delle possibili implicazioni, sul concetto di “Radura”.
Il concetto di radura appare declinarsi in vari modi a seconda del contesto di confronto.
Mentre sulla parte del pianeta in espansione demografica ci si interroga sui modelli di sviluppo urbano, nel mondo “antico” ci si confronta sulle strategie di conversione del costruito, alla ricerca di un miglioramento delle qualità dell’habitat che corregga gli errori delle espansioni del secondo dopoguerra, ma che allo stesso tempo, renda le città più vivibili per gradienti crescenti di felicità.
Partendo dalle ultime riflessioni, ci si chiede in fondo se possano esistere modelli di retrofit urbano capaci di generare nuove aspettative in termini di felicità, che inducano e sollecitino le persone all’inclusione, ad una modalità gentile e accogliente di confronto.
Prendono un ruolo in questa ottica alcune delle recenti teorie urbane, sulla funzione della vegetazione, orizzontale o verticale, nelle strategie di recupero, sulle modalità di riqualificazione degli scarti domestici, sulle scelte di transito veicolare e a pedali, sull’uso dello spazio vuoto, di risulta. Ed infine sulle modalità per coniugare al meglio il concetto di radura, di riparo, col concetto di abitato.
Assume pregnanza riflettere sul significato di questo concetto, che comunica un’idea di interruzione di continuità spaziale e ambientale, e il suo ruolo nell’ambito dello sviluppo delle nuove identità urbane e di una loro evoluzione che, a sua volta, apre nuove sfide.

Ad esempio, occorrerebbe capire meglio quanto debbano riacquisire importanza il non costruito, il demolito o l’effetto di crollo, spesso carico di significati profondi, e la capacità di rigenerazione urbana. E, nel far ciò, sarebbe pure interessante chiedersi se i vuoti urbani non rappresentino di fatto delle radure, delle isole urbane di riflessione, le nuove piazze; e se di contro, nel riacquisire centralità, la scuola, anche nelle sue forme architettoniche, non debba ritornare ad essere considerata una radura, un luogo benefico e di importanza strategica formale e culturale.

Non si tratta qui di individuare una modalità di rarefazione del costruito, una regola di compressione degli indici di edificabilità, ma di riflettere sul senso di discontinuità, sulla possibilità di generare nuove isole di felicità e di convivenza.

Provando a raccogliere questo invito a riflettere, verrebbe da dire – in una prospettiva interdisciplinare – che gran parte dei dilemmi appena evocati circa le prossime scelte di (ri)generazione urbana e di (ri)progettazione nel costruito e nel non-costruito sembrerebbe avere un elemento distintivo principale: quello che gli individui rilevano quando si trovano in situazioni connesse a ricompense a breve termine spesso in conflitto con ricompense maggiori ma disponibili in un tempo più lontano.

Sintetizzando al massimo tutto ciò in una domanda ci si potrebbe chiedere: in situazioni conflittuali come quelle appena descritte, come aumentare la probabilità di scelte lungimiranti associate a ricompense maggiormente premianti – e per questo anche più gratificanti sul piano della felicità – di quelle disponibili nel breve termine?

Considerate in questa prospettiva le cose dette sin qui a proposito di radura potrebbero indurre al bisogno di un suo stretto collegamento con l’idea di self-control. Nel senso che la rilevanza del self-control è palese proprio per situazioni come quelle a cui è stato fatto riferimento: e cioè quelle dove vi sia un conflitto tra scelte orientate a ottenere benefici più piccoli a breve e scelte dirette a ottenere benefici più gratificanti ma spostati più in là nel tempo.

A tale riguardo, diversi studiosi, specialmente in ambito di economia e psicologia sperimentale, hanno osservato che l’organizzazione di strategie a sostegno di comportamenti di self-control svolgerebbe una funzione fondamentale per promuovere livelli di felicità crescenti, sia sul piano individuale, sia su quello delle relazioni interpersonali. Ed è stato anche aggiunto che se schemi con sanzioni/punizioni per scelte impulsive possono essere strumentali all’organizzazione di tali strategie, un aiuto ancor più efficace per lo stesso scopo potrebbe derivare da schemi alternativi più soft, dove la punizione per l’impulsività non avviene ex-post ma simultaneamente all’interruzione di un determinato piano d’azione per il quale si era preso un impegno.

Un esempio può essere quello dell’avvio di un investimento tramite l’attivazione di una sequenza di comportamenti la cui interruzione risulta di per sé stessa costosa.

Può essere interessante osservare che la maggior efficacia di questi schemi più soft si manifesterebbe specialmente in contesti di scelte la cui complessità è strettamente dipendente dalla presenza di alternative connesse a punti di arrivo aventi una natura tendenzialmente ideale e astratta, come può ad esempio capitare quando si ragiona su obiettivi di altruismo, moralità e benessere fisico, e sulle sequenze di comportamenti necessari a tradurre sul piano della realtà e in via ottimale questi obiettivi.
Se è vero che l’interesse dell’architettura è da sempre orientato verso grandi traguardi ideali e che il dibattito contemporaneo che anima questa disciplina è particolarmente sensibile al tema della progettazione di nuovi spazi in grado di accogliere tutti con più altruismo e possibilità di inclusione sociale, allora diventa sempre più importante l’introduzione di schemi coerenti con la logica del self-control nei nuovi modelli di progettazione urbana.

È in questo senso che nell’ambito dell’architettura contemporanea, il concetto di radura – in raccordo con l’idea di self-control – potrebbe avere una speciale carica innovativa e suggerire, in modo lungimirante, nuovi orizzonti ideali per le prossime scelte in ambito di gestione e sviluppo degli spazi urbani.

Il ragionamento svolto sin qui non pretende chiaramente di fornire un rimedio definitivo per le principali distorsioni socio-ambientali prodotte dall’evoluzione dello sviluppo urbano. Tuttavia, esso potrebbe fornire almeno qualche direttrice per l’elaborazione di modelli di sviluppo urbano maggiormente inclusivi e capaci di offrire anche ai meno fortunati condizioni esistenziali più accettabili di quelle da loro godute sinora.

Tra le possibili direttrici allineate ad una più stretta interrelazione tra il concetto di radura e quello di self-control, si imporrebbe degna di speciale attenzione quella di una ridefinizione del piano/area orizzontale dello sviluppo urbano, ma anche di un contenimento dello spazio in cui lo sviluppo urbano assume una dimensione di sfida verticale, come capita nella competizione per torri e grattacieli (con ovvio riferimento a situazioni lontane da quelle di luoghi come San Gimignano in Italia!).

Alcune città moderne sembrano ormai decise ad applicare metodi di self-control alla rivitalizzazione dello spazio urbano, ridisegnando gli spazi di risulta, ripensando alla funzione dei vuoti e delle vie, degli spazi pedonali, orientati verso una rilettura dei tempi della vita e dei contatti umani, dello spazio per gli animali e della vegetazione.
A titolo di esempio il progetto “Biodiversity” in architettura rappresenta da quasi un decennio un esempio di lavoro, in un continuo interrogarsi sul ruolo che il design giocherà nel controllo e nel rapporto tra natura e artificio; tra progetti lungimiranti vantaggiosi e esempi depauperanti.

Un orientamento strategico di questo tipo, dovrebbe tuttavia essere frutto di scelte sociali largamente condivise e a tal fine aiuterebbe promuovere un grande dibattito pubblico – tra esperti, rappresentati delle istituzioni e cittadini – avente almeno due finalità principali:

• (ri)esplorare limiti e orizzonti ancora aperti legati all’idea di una ipotetica coesistenza, teoricamente priva di contrasti e dicotomie insuperabili, tra natura e spazi artificiali creati dagli uomini.

• verificare la reale compatibilità tra il naturale e l’artificiale, e se intercorra una relazione biunivoca e intercambiabile tra i due termini, come sembrano asserire certi progetti che puntano a replicare e/o innestare biodiversità e vita degli ecosistemi naturali in ambienti del tutto artificiali – e per questo dipendenti dall’uomo – sulle facciate di edifici di cemento; o come purtroppo capita di pensare guardano a certi spazi urbani distrutti da terribili calamità naturali, ricreati poi negli stessi posti sulla base di nuove idee progettuali e tecnologie ritenute capaci di controllare un eventuale ripetersi di quelle calamità, ma nonostante ciò incapaci di riacquisire la vitalità sperata, o per via di uno spopolamento spontaneo e imprevisto, o per via di una nuova calamità che per imprevedibili motivi sfugge ancora alla possibilità di un pieno controllo umano.

Il self-control suggerirebbe di meditare con cautela davanti a certe mode e tendenze nel mondo della progettazione che, se sviluppate in modo totalizzante, potrebbero indurre l’architettura contemporanea a perdere di vista la centralità dell’ambiente naturale rispetto a quello artificiale, pur sempre tecnologicamente necessario, e trasformare così buone intenzioni in esiti non più armonicamente componibili e per questo destinati a evocare contorni che potrebbero diventare pericolosi quanto, evidentemente, inclinati oltre il controllo.

Note bibliografiche:

Bruni L. (2010), “The happiness of sociality. Economics and eudaimonia: a necessary encounter”, Rationality and Society, 22(4), pp.383-406.Rachlin H. (2000), The science of self-control, Harvard University Press, Cambridge.

Clément G. (2008), Il giardiniere planetario, 22 Publishing, Milano.

Augé M. (2008), Nonluoghi. Introduzione a Un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano.

Progetto Radura, Stefano Boeri Architetti, Università degli Studi, Milano, Cliente Interni magazine.

Khan S., Colau A., “City properties should be homes for people first – not investments”, The Guardian, Tue 3 Jul 2018, https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/jul/03/city-properties-homes-people-first-london-barcelona

Memoria, racconto, storia

(25 aprile 2019) La sera prima di morire Leone Ginzburg scrisse una celebre lettera alla moglie Natalia. Il 4 febbraio del 1944, dall’infermeria del carcere romano Regina Coeli dove il letterato antifascista versava in condizioni critiche dopo aver subito interrogatori e torture dai nazisti, dedicava queste ultime parole alla donna amata: “La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro”. Parole che hanno attraversato i decenni del dopoguerra lasciando tracce profonde attraverso quel libro fondamentale che è Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952) e che oggi, dopo 75 anni, sono riecheggiate per pochi secondi in televisione su Rai Storia.

Racchiudono un tema che accompagna o dovrebbe accompagnare la riflessione di chi, sotto diversi profili, storico, letterario, appunto artistico, affronti le problematiche della trasmissione della memoria, della conoscenza, del vissuto. La scrittura, la narrazione, il racconto, come strumento e come modalità di pensiero, sono questioni aperte sulle quali si sono sviluppati e sono in corso dibattiti rilevanti che qui sarebbe impossibile anche riassumere. Ricordo solo alcuni titoli italiani interessanti: 1938, storia, racconto, memoria (2018), con una breve ma illuminante introduzione del curatore Simone Levis Sullam e una utile bibliografia; Il passato: istruzioni per l’uso (2006), di Enzo Traverso; Dopo l’ultimo testimone (2009) di David Bidussa; Il filo e le tracce (2006), di Carlo Ginzburg.

La necessità di sciogliere i nodi del continuo rapporto dialettico tra la puntuale narrazione e il metodo scientifico della storia (ma non solo) scaturisce anche dall’esigenza impellente di adeguare ricerca, didattica e comunicazione a nuove generazioni che assimilano il sapere con tempi e modalità in costante mutazione; e dalle conseguenze della scomparsa quasi totale dei testimoni (non a caso) delle persecuzioni del nazifascismo e della guerra di Liberazione. Si pone dunque inderogabile l’elaborazione di sempre più efficaci forme di trasmissione degli studi, in contrasto con le menzogne, i revisionismi, le semplificazioni, le enfatizzazioni. Il “come fare” è un vasto campo aperto e il racconto è solo una delle opzioni possibili. Il rispetto del rigore scientifico, la comparazione e quindi la ricostruzione della realtà dei fatti, un dovere.

Natalia Ginzburg, poco più di 20 anni dopo la lettera del marito, e a seguito di non facili tormenti personali – (I dolori non guariscono mai: però a un certo punto si guardano con distacco. Io non riesco ancora a guardarvi con distacco – 1963) – pubblicava Lessico famigliare, un ritorno alle origini, con una avvertenza: “Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato”.

Quella lettera di Leone Ginzburg, quelle lettere dei condannati a morte restano dunque un passepartout fondamentale per cogliere un racconto profondo e vivo della Resistenza insieme al caleidoscopio ricchissimo di implicazioni e rimandi a esistenze vere, vissute e purtroppo violentemente interrotte. “Io spero (ci conto) che un giorno i miei figli le leggano, le lettere dei martiri dell’antifascismo. Io spero (senza contarci troppo) che le leggano un giorno anche i figli dei miei figli”, scrive Sergio Luzzato.

(wa.f.)

Libro Issasco, La Sardegna e la guerra di Liberazione

(29 aprile 2018) La Sardegna e la guerra di Liberazione. Studi di storia militare, a cura di Daniele Sanna, per FrancoAngeli editore, è il titolo che inaugura la collana “Sardegna contemporanea” promossa dall’Issasco, presentato in anteprima a Oristano il 25 aprile scorso.

Si tratta di un lavoro collettivo, incentrato sulla sorte dei militari sardi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 e sull’apporto da loro fornito alla causa della Resistenza. La presenza e la riorganizzazione di una grande massa di truppe, che dopo l’armistizio ha inciso sulle dinamiche politiche del territorio isolano, apre nuovi scenari di ricerca, sul piano della storia militare, in primis, ma anche riguardo a una più generale lettura delle implicazioni sociali a livello locale. Lo studio dell’Issasco, lungi dall’essere un’indagine esaustiva, intende proporre alcuni spunti di riflessione su questo specifico profilo che saranno ulteriormente scandagliati e sviluppati.

Furono numerosi i reparti inviati dall’isola a combattere al fianco degli Alleati verso la Linea Gustav e la Linea Gotica, mentre molti soldati sardi, che già si trovavano in continente, diedero un contributo decisivo alla Liberazione: sia quelli sbandati, che furono anche vittime della barbarie nazista, come nel caso dei martiri di Sutri, sia quelli che operarono nelle bande partigiane. Le vicende del comandante Geppe, Nino Garau, che guidò la brigata “Casalgrandi” nel Modenese, o del colonnello Luigi Cano, che combatté nella Capitale, sono ricostruite nel libro, insieme alla complessa evacuazione tedesca dall’isola e al fatto di sangue di Oniferi sinora mai indagato. Il filo rosso che lega l’antifascismo sardo alla Resistenza è testimoniato altresì dall’alto numero di brigate partigiane dedicate a Gramsci, a dimostrare quanto fosse stretto il legame fra il leader comunista di Ales e il Movimento di Liberazione. Questo, in estrema sintesi, l’oggetto degli scritti di Francesco Ledda, Giuseppe Manias, Daniele Sanna, Giuseppe Sassu, oltreché del sottoscritto.

La Collana dell’Issasco, il cui comitato scientifico è diretto da Alberto De Bernardi e da Francesco Soddu, intende promuovere un confronto aperto a nuovi contributi di studiosi che si affacciano nell’ampio ambito di indagine sulla Resistenza e sull’antifascismo e sulle articolate specificità storiche e culturali dell’isola. La storia delle donne, la storia militare, dei movimenti, ma anche il dibattito sull’autonomia sarda, sulla programmazione, sull’industrializzazione o sulle tematiche dell’emigrazione, sono alcuni aspetti e contenuti privilegiati di questo progetto editoriale.

(walter falgio)

Copertina del libro

Scheda FrancoAngeli.it

MediterRadio Radio Rai di Vito Biolchini (11’25”)

Sardiniapost di Francesca Mulas

La Sardegna e la guerra di Liberazione (2018)

La Sardegna e la guerra di Liberazione. Studi di storia militare di FrancoAngeli a cura di Daniele Sanna (158 pagine, 20 €), che inaugura la collana “Sardegna contemporanea” promossa dall’Issasco, riporta un mio contributo sull’esperienza del comandante partigiano cagliaritano, Nino Garau. La prima presentazione si è tenuta a Oristano il 25 aprile 2018.

Con i saggi di Francesco Ledda, Giuseppe Manias, Daniele Sanna, Giuseppe Sassu, il volume è incentrato sulla sorte dei militari sardi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 e sull’apporto da loro fornito alla causa della Resistenza. La presenza e la riorganizzazione di una grande massa di truppe, che dopo l’armistizio ha inciso sulle dinamiche politiche del territorio isolano, apre nuovi scenari di ricerca, sul piano della storia militare, in primis, ma anche riguardo a una più generale lettura delle implicazioni sociali a livello locale. Lo studio dell’Issasco, lungi dall’essere un’indagine esaustiva, intende proporre alcuni spunti di riflessione su questo specifico profilo che saranno ulteriormente scandagliati e sviluppati.

Furono numerosi i reparti inviati dall’isola a combattere al fianco degli Alleati verso la Linea Gustav e la Linea Gotica, mentre molti soldati sardi, che già si trovavano in continente, diedero un contributo decisivo alla Liberazione: sia quelli sbandati, che furono anche vittime della barbarie nazista, come nel caso dei martiri di Sutri, sia quelli che operarono nelle bande partigiane. Le vicende del comandante “Geppe”, Nino Garau, che guidò la brigata “Casalgrandi” nel Modenese, o del colonnello Luigi Cano, che combatté nella Capitale, sono ricostruite nel libro, insieme alla complessa evacuazione tedesca dall’isola e al fatto di sangue di Oniferi sinora mai indagato. Il filo rosso che lega l’antifascismo sardo alla Resistenza è testimoniato dall’alto numero di brigate partigiane dedicate a Gramsci, a dimostrare quanto fosse stretto il legame fra il leader comunista di Ales e il Movimento di Liberazione.

La Collana dell’Issasco intende promuovere un confronto aperto a nuovi contributi di studiosi che si affacciano nell’ampio ambito di indagine sulla Resistenza e sull’antifascismo e sulle articolate specificità storiche e culturali dell’isola. La storia delle donne, la storia militare, dei movimenti, ma anche il dibattito sull’autonomia sarda, sulla programmazione, sull’industrializzazione o sulle tematiche dell’emigrazione, sono alcuni aspetti e contenuti privilegiati di questo progetto editoriale.

(walter falgio)

Pagina Facebook Issasco

Copertina del libro

Scheda libro FrancoAngeli.it

Intervista su MediterRadio Radio Rai di Vito Biolchini 20 aprile 2018 (11’25”)

Servizio su Sardiniapost di Francesca Mulas 24 aprile 2018

Locandina presentazione volume Ales e Oristano

Locandina presentazione volume Oristano 25 aprile 2018

Locandina presentazione volume a Cagliari 18 maggio 2018

Segnalazione di Salvatore Tola su La Nuova Sardegna 28 maggio 2018

Recensione di Luciano Piras su La Nuova Sardegna 29 settembre 2018

Recensione di Fabio Ranucci su Conquiste del Lavoro 3 novembre 2018

Locandina presentazione volume a Iglesias 24 novembre 2018

Recensione di Paolo Pozzato su Italia Contemporanea n. 288 dicembre 2018

Locandina Anpi presentazione volume a Spilamberto (MO) 19 aprile 2019

Locandina eventi 25 aprile 2019 Comune di Spilamberto

Recensione di Valerio Strinati su “Patria Indipendente” 18 settembre 2019

Recensione di Massimiliano Rais su Unionesarda.it 21 gennaio 2020

I fantastici pugni di Davide

(23 ottobre 2017) Ciao Davide, io so chi sei.

Un ragazzo eccezionale. Un artista, un uomo forte e determinato, sensibilissimo alla vita e alle parole dell’altro. Abbiamo condiviso esperienze memorabili e tu hai saputo correre e fermarti laddove ce n’è stato bisogno. Io so chi sei perché ho incrociato il tuo sguardo intenso e ribelle, proiettato nei sogni che spesso hanno riempito tanti vuoti.

È da tempo che non ci incontriamo. È da tempo che non ho tue notizie. Scopro che stai lottando in una condizione carceraria difficile e che hai reso pubblica la tua sofferenza. Mi sono chiesto cosa posso fare per te. Me lo sono chiesto perché credo sia un dovere, complicato e intimo di ciascuno, interrogarsi oltre le ricadute del proprio orizzonte quotidiano.

Di sicuro oggi non posso “liberarti” come in parte, anni fa, fummo riusciti a fare con Gisella, tutti insieme, attraverso quella straordinaria esperienza teatrale. Ma posso dire chi sei dall’esterno, secondo me, perché chi vuole mi ascolti. Questo sì. Posso farlo con l’unico strumento di cui dispongo, la scrittura. E posso dire che il tuo valore, che io conosco, non può essere intaccato da qualsivoglia sentenza di condanna. Posso dire che i tuoi pugni saranno irresistibili quando sarai in grado di tramutarli in poesia. Come sai.

Ti abbraccio

(walter falgio)

Porrajmos e pregiudizio, gli studi di Luca Bravi

(2 maggio 2017) Luca Bravi, storico, studioso della persecuzione e dello stermino di rom e sinti sotto nazismo e fascismo, ha il merito di narrare con grande chiarezza e coraggio un fenomeno rimosso, misconosciuto, attraversato da mille lacerazioni e dimenticanze. Alla base di quella che, in sostanza, è una discriminazione razziale e una mancata affermazione dei diritti umani inalienabili, si colloca lo stereotipo. Un gigantesco e attuale pregiudizio nei confronti di una popolazione europea, come rimarca Bravi, “pienamente inserita nella nostra società”. Recentemente lo storico è stato ospite della Biblioteca gramsciana Onlus e di altre associazioni per tenere un incontro nel Comune di Villa Verde.

Che cosa è ‘Porrajmos’ e perché si parla di una “ferita ancora aperta”?

Con il termine Porrajmos – il “grande divoramento” in lingua romanì cioè la lingua dei rom – si indica la persecuzione e lo sterminio di rom e sinti durante il nazifascismo. Rom e sinti lo vivono ancora come una ferita, perché il Porrajmos, costantemente presente nella narrazione storica all’interno delle comunità, risulta invece assente dalla storiografia europea; in Italia, in particolare, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria non nomina il Porrajmos. Nel 2015, il senatore Luigi Manconi ha presentato una proposta di legge per includere anche lo sterminio dei rom e sinti all’interno del testo della legge 211 del 2000 in modo che possa a pieno titolo essere ricordato ogni 27 gennaio.

Ci puoi fornire qualche dato?

Al centro di quest’analisi è necessario mettere la riflessione sulle motivazioni che portarono allo sterminio dei rom e sinti sottolineando che furono motivazioni razziali. La categoria “zingari” era considerata dai nazisti come un elemento razzialmente inferiore e per questo portatrice di due caratteri ereditari da eliminare: l’istinto al nomadismo e l’asocialità. Il nazismo aveva legiferato sulla “questione zingari” fin dal 1933 prevedendo prima la sterilizzazione coatta, poi la prigionia in campi di sosta forzata ed il lavoro schiavo ed infine, con il decreto di Auschwitz del 1942 firmato da Heinrich Himmler, l’invio ad Auschwitz-Birkenau. La ricerca razziale su questa categoria era attiva anche in Italia e ricalcava i teoremi nazisti, tanto che dal 1940, “gli zingari” nel Regno d’Italia furono rinchiusi in campi di concentramento ad essi riservati. L’armistizio fece collassare il sistema dei campi italiani, ma rom e sinti che furono poi arrestati nell’area d’influenza della Repubblica sociale italiana furono poi deportati in particolare nei campi austriaci. Di solito si indica il dato di mezzo milione di caduti rom e sinti per la persecuzione e lo sterminio nazifascista; il dato numerico non è confermabile con certezza, perché carovane furono liquidate immediatamente sul luogo dell’arresto, in particolare nell’est europeo e spesso questi soggetti non erano iscritti all’anagrafe dei paesi di provenienza.

Quale è la visione che la Germania ha elaborato sull’evento, soprattutto in relazione alla Shoah e sul piano della memoria collettiva?

Fino al 1980, la Germania non ha considerato la persecuzione di rom e sinti come uno sterminio di stampo razziale assimilabile alla Shoah: si diffondeva l’idea che la categoria “zingari” fosse stata internata in relazione ad una politica di prevenzione del crimine attivata dal Terzo Reich. I documenti d’archivio dimostrano invece che rom e sinti furono selezionati su precise basi razziali da una specifica Unità d’Igiene razziale che misurava anche la quantità di “sangue zingaro” presente in ciascun individuo; un quarto di sangue zingaro era sufficiente per essere inviato verso Auschwitz. Non è dunque un caso se tra i deportati ed i caduti ci furono anche bambini appena nati che furono sterminati proprio perché considerati un pericolo a livello genetico. Questo tipo di approccio ha permesso alla Germania di non pagare gli indennizzi dovuti alle famiglie rom e sinte. Sul piano della memoria collettiva, gli eventi legati al Porrajmos non hanno avuto alcuna elaborazione culturale e infatti si sono conservati pesanti stereotipi su rom e sinti che proprio al tempo del nazifascismo si richiamano. La Germania oggi ha finalmente inaugurato un Memoriale dedicato alle vittime del Porrajmos che si trova di fronte al Reichstag tedesco nei pressi di quello dedicato alle vittime della Shoah. (Guarda l’intervista al musicista rom abruzzese, Santino Spinelli, rilasciata a Rino Pellino per TGR Rai in occasione dell’inaugurazione del memoriale tedesco il 25 ottobre 2012).

La ricerca sul tema Porrajmos si sviluppa in tempi relativamente recenti: solo per limitarci all’Italia, i primi lavori specifici tradotti risalgono a metà anni Settanta, quale per esempio “Il destino degli zingari” di Kenrick e Puxon. Come si spiega questo ritardo storiografico su un capitolo che a pieno titolo rientra nella pratica del genocidio nazista e della persecuzione razziale?

Si spiega considerando il processo di tenuta a distanza che abbiamo costruito intorno a queste comunità: abbiamo fatto percepire rom e sinti come gruppi distanti dalle vicende che hanno toccato le popolazioni europee; li abbiamo dipinti come soggetti “fuori dalla storia” che al massimo potevano necessitare di politiche rieducative o d’inclusione sociale, mai raccontandoli per quello che sono, cioè comunità che condividono da secoli le nostre medesime vicende storiche. In un certo senso è questa secolare tenuta a distanza che ha negato e continua a negare il legittimo racconto del Porrajmos.

Gli zingari ad Auschwitz: dove e come erano collocati, quale trattamento ricevettero i bambini

Rom e sinti ad Auschwitz entrarono a partire dal marzo del 1943; all’interno di Birkenau erano collocati nel settore BIIE, detto anche lo Zigeunerlager, cioè il campo degli zingari. Vivevano insieme alle proprie famiglie perché usati soprattutto come cavie da laboratorio essendo considerati “ariani imbastarditi”, un dato legato alla loro antica provenienza dal nord dell’india. In questo caso i numeri degli internati di Auschwitz sono precisi, perché anche rom e sinti erano registrati e marchiati sull’avambraccio con la matricola che aveva per iniziale la “Z”; vi entrarono 23.000 soggetti registrati sotto la categoria “zingari”. Il loro campo confinava con quello degli ebrei maschi e fu da quella recinzione che Luigi Sagi e Piero Terracina, entrambi ebrei, ascoltarono le grida che si levarono dal campo BIIE nella notte tra 1 e 2 agosto 1944. In quella data, lo Zigeunerlager fu completamente liquidato e le tremila persone presenti in quel momento in quell’area furono tutte passate per la camera a gas in una sola notte.

Una storia emblematica: Tadeusz Joachimowski e il recupero del libro mastro di Birkenau.

Tadeusz Joachimowski (matricola 3720), sopravvissuto polacco ad Auschwitz, era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom in quel luogo: su un libro le donne e sull’altro gli uomini; nell’istante in cui avveniva la registrazione, quelle persone perdevano definitivamente la propria identità diventando un numero. Dall’agosto del 1944 nessuno ebbe più il modo di conoscere il nome dei sinti e rom uccisi in quel luogo. Il 13 gennaio 1949, Tadeusz Joachimowski, il prigioniero che aveva registrato migliaia di nomi e numeri, tornò nel luogo della sua prigionia ed indicò con sicurezza il luogo in cui, nell’estate del 1944, insieme ai compagni di prigionia Irenuesz Pietrzyk (matricola 1761) ed Eryk Porebski (matricola 5805), aveva sotterrato un vecchio secchio di latta con dentro il libromastro dello Zigeunerlager di Birkenau avvolto in degli stracci, prima che quell’area del campo di sterminio fosse totalmente liquidata: lo scavo avvenne nei pressi della baracca 31 ed il secchio tornò alla luce insieme a quelle pagine dense di nomi e di storie interrotte. Oggi quel libro, ristampato e diviso in due volumi con la copertina blu, accoglie i visitatori del blocco 13 di Auschwitz 1 e riconsegna simbolicamente ad ognuno di noi, prima di salire le scale che portano verso la mostra, quei 23mila nomi di uomini e donne che hanno smesso di essere numeri.

La Sardegna è stata una destinazione della deportazione degli zingari sotto il fascismo. Ci spieghi quali sono i contorni della vicenda?

La convinzione espressa da Benito Mussolini che ebrei e rom fossero spie attive contro lo Stato, portò ad ordinare un sempre più stretto controllo sui confini e l’Istria divenne il banco di prova della politica antizingara. Il 17 gennaio 1938 Arturo Bocchini ordinava di contare e categorizzare tutti i rom istriani dividendoli tra soggetti con precedenti penali non pericolosi, soggetti senza precedenti penali e pericolosi e soggetti pericolosi. Il prefetto istriano Cimoroni rispondeva con delle liste di nomi dettagliatissime e tra febbraio e maggio 1938 l’ordine emanato da Arturo Bocchini il 17 gennaio 1938 avviava la pulizia etnica dell’Istria nei confronti dei rom e sinti: questi furono imbarcati sui traghetti e portati verso il confino in decine di paesi sardi, tra le province di Nuoro e Sassari. Arrivarono in Sardegna almeno 80 persone che poi furono disperse nelle campagne e controllate dai carabinieri. In quello stesso anno la medesima pratica di allontanamento venne adottata per i sinti trentini, colpevoli anch’essi di rappresentare una popolazione considerata pericolosa a livello ereditario e dunque spostati al confino in Sardegna per motivi di sicurezza dello Stato.

Quanto ha inciso il pregiudizio storico su Rom e Sinti sulla narrazione di una storia attenta e il più possibile compiuta della loro persecuzione sotto fascismo e nazismo?

Il problema sta tutto nella mancanza di elaborazione culturale rispetto al tema dell’antiziganismo. La fine della seconda guerra mondiale non ha coinciso con la decostruzione dello stereotipo dello zingaro, per questo motivo la maggioranza delle persone continua ad immaginarsi rom e sinti come nomadi e asociali in grado di vivere solo nel campo nomadi, senza sapere che, in realtà, l’80 per cento di queste persone è già pienamente inserito nella nostra società. Purtroppo lo stereotipo è talmente forte che nel 2017 queste persone preferiscono, se possono, non rivelare la propria appartenenza comunitaria per non doversi difendere dai pregiudizi. Mi pare dunque utile segnalarvi il lavoro costruito da Denny Lanza, un regista di origini sinte che vive a Prato, in Toscana e che ha recentemente lanciato la campagna #Guardiamoltre sui social.

La sterilizzazione degli zingari, uno degli abusi perpetrati dal regime nazista, non si è interrotta nemmeno nel dopoguerra. Ci racconti come, dove e perché è stata praticata?

A partire dal 1926 – ma protrattasi per tutti gli anni Ottanta in Svizzera – il dottor Alfred Siegfried ha realizzato una campagna eugenetica dal titolo Les enfants de la grande route che è stata finanziata con fondi statali per eliminare “la piaga del nomadismo genetico” che si rintracciava nel gruppo degli Jenische. Mariella Mehr ha narrato nei suoi libri pubblicati anche in Italia (ad esempio Labambina, Milano 2006) le vicende di sterilizzazione e di rieducazione coatta, fino alla pratica dell’elettroshock, cui è stata sottoposta lei stessa, suo figlio ed altri centinaia di bambini che in quegli anni furono strappati con la forza alle proprie famiglie. Esiste anche un bel documentario radiofonico che consente di approfondire questa storia poco conosciuta.

Quali le attività di sensibilizzazione e dibattito in corso in Italia sul tema Porrajmos? Quali le prospettive della ricerca?

Abbiamo appena chiuso un progetto dal titolo “Insieme” finanziato da Miur ed Unar che ha avuto per partner un gruppo formato da cinque scuole a livello nazionale, l’Università di Siena, il Teatro Ipotesi di Genova, l’associazione Sucar Drom e la radioweb RadioCora.it in rappresentanza dell’Associazione Stampa Toscana: le scuole hanno lavorato sull’informazione e sulla conoscenza rispetto al mondo dei rom e dei sinti, proprio a partire dal Porrajmos, ma per finire con l’incontro con i ragazzi/e in carne ed ossa che già vivono accanto a loro; non posso far altro che suggerire il servizio del TGR Rai 21 aprile scorso che ha raccontato il seminario finale del “progetto Insieme” ed il racconto che RadioCora.it ha fatto di questo progetto che ha coinvolto 5000 persone di cui 3000 studenti: la risposta più bella che potrei proporre.

(walter falgio)

La vicenda dei Govoni e la memoria divisa

(6 gennaio 2017) “Quando cominciai a pensare a questo libro, mi capitò tra le mani un’antologia di una rivista partigiana, Patria indipendente. C’era una poesia”. Chi scrive è Alessandro Portelli, nel suo L’ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, riferendosi al componimento Aladino. Lamento su mio figlio morto (Mondadori 1946) che Corrado Govoni dedica allo stretto congiunto trucidato alle Fosse Ardeatine. L’ho riletto in questi giorni, riflettendo sulla persistenza del concetto di memoria divisa. “Non sapevo ancora chi fosse Aladino Govoni; di Corrado Govoni sapevo che era un poeta fra crepuscolarismo e futurismo”, continua Portelli. “Poche settimane dopo, in epigrafe a un libro di destra – Pierangelo Maurizio, Via Rasella. Cinquant’anni di menzogne – trovo altri versi: stesso autore, Corrado Govoni; stesso titolo, Aladino“.

Nella prima citazione compare una parte dello scritto di Govoni riferito al carnefice tedesco:

Quanto poté durare il tuo martirio
nelle sinistre fosse Ardeatine
per mano del carnefice tedesco
ubbriaco di ferocia e di viltà? [LVI, 78]

Nella seconda uno stralcio che invece richiama la viltà del partigiano

Il vile che gettò la bomba nera
di Via Rasella, e fuggì come una lepre,
sapeva troppo bene quale strage
tra i detenuti di Regina Coeli
a via Tasso, il tedesco ordinerebbe:
di mandante e sicario unica mira. [XLVI, 65]

“La categoria della ‘memoria divisa’ è oggi una pietra angolare del discorso sulla guerra, la resistenza, le stragi naziste”, osserva lo storico Alessandro Portelli. Ma in questo caso, nel caso di Govoni, si assiste a una cesura tutta interna alla medesima esperienza umana. “Non si stratta di due poesie contrapposte, ma di una stessa poesia nello stesso libro”, sempre Portelli. E aggiunge che il modo per alterarne il significato, mistificarne il senso, di privare la poesia di un’interpretazione, “è farla a pezzi, e spartirsela prendendosi ognuno il pezzo che gli fa comodo”.

La vicenda di Govoni è inscritta in un orizzonte molto significativo e la lettura del suo Lamento oggi è decisamente illuminante. Corrado, il padre di Aladino, è stato poeta molto fecondo (qui la voce del Dizionario biografico). Resta ambigua la sua prossimità al fascismo sebbene lui stesso nel settembre del 1943 confessasse a Giovanni Papini di “aver creduto, piuttosto tardi e solo per un certo periodo” in Mussolini. Gli dedicò opere apologetiche contraccambiate da “qualche migliaia di lire buttate in faccia come elemosina, accettate per necessità, pagate con vergognose anticamere [e] affannoso salire e scendere scale di redazioni di giornali e di ministeri…”, ricostruisce sempre Portelli dalla missiva, e ancora: “Non è stato mai fascista mio nonno – testimonia Flavio Govoni in L’ordine è già stato eseguito – ; ha se vogliamo scritto dei poemetti, per cercare di poter campare, ma è stato un uomo sfortunato, non ha mai avuto una grossa fortuna nemmeno dal punto di vista poetico, e quindi questa cosa gli si ritorse contro, diventò comunque un poeta bollato come poeta fascista, e questo discordava molto dalla posizione del figlio”.

Aladino Govoni, caduto nella strage del 24 marzo del ’44, ufficiale di complemento nei Granatieri di Sardegna, dopo l’8 settembre aveva combattuto contro i tedeschi alla Cecchignola e a Porta San Paolo. Catturato nel febbraio del ’44 fu torturato e poi massacrato alle Fosse Ardeatine. Gli è stata conferita la Medaglia d’oro al valor militare, la città di Roma gli ha dedicato una strada.

Corrado lo piange con un poema fortissimo, dove dichiara vendetta al “feroce capitano Keller”, allo stesso Kappler, “lo schifoso biondo che porta nella gota la frustata dello sputacchio di una cicatrice, al tenente Marini, “l’assassino che da Regina Coeli i morituri chiamò fuori per nome”: si trattava di Mauro de Mauro sotto falso nome. Lo stesso Govoni lo rimarca in una nota a margine: “Il sedicente tenente Marini, è la spia e collaboratore delle S.S. Mauro de Mauri, uno degli esecutori dei martiri delle Fosse Ardeatine, naturalmente ancora libero come tante altre spie e infami dell’esecrando vile oppressore tedesco”. (De Mauro fu prima condannato in contumacia e poi assolto con formula piena ai processi per “collaborazionismo”).

Pertanto, i fatti dei Govoni riportano a una considerazione decisiva, non solo nell’ambito dell’analisi storica – come nei contesti a cui si è fatto accenno – ma anche sotto i profili intimi del ricordo. Sergio Luzzato, nipote di un ebreo perseguitato, sintetizza con decisione ne La crisi dell’antifascismo: “Se parliamo di memoria, io desidero e pretendo che la mia e quella di Vivarelli (Roberto Vivarelli, contemporaneista, figlio di fascista ucciso dai partigiani jugoslavi nel ’42, lui stesso ‘ragazzo di Salò’) restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario di tutte le guerre del duce; si tenga la memoria di se stesso, imberbe volontario delle brigate nere. Io mi tengo la memoria del nonno che non ho mai conosciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti “ariani”, prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale”. Di contro, “Il rischio di una memoria condivisa è una ‘smemoratezza patteggiata’, la comunione della dimenticanza”.

(walter falgio)

– Sulla storia di Corrado e Aladino Govoni segnalo anche un bel servizio firmato da Sante Maurizi per La Nuova Sardegna