(17 luglio 2021) Pubblico il servizio ospitato da B-hop Magazine sul faentino Bruno Neri.
Partigiano e calciatore: il faentino Bruno Neri è divenuto celebre soprattutto per un’immagine. Firenze, 10 settembre 1931, qualche giorno prima dell’inaugurazione ufficiale nel nuovo stadio della squadra viola costruito dal presidente di allora Luigi Ridolfi, si tiene un’amichevole con il Montevarchi. Poco prima del fischio d’inizio un’istantanea immortala la formazione: tutti gli atleti sono più o meno protesi nel saluto romano tranne uno. Neri dice no, si impone in una posa coraggiosissima e iconica, rifiutando di esprimere la sua adesione al fascismo, trattenendo le braccia lungo i fianchi e stringendo le mani chiuse a pugno.
Nel libro Due partigiani. Vincenzo Pes, Bruno Neri appena pubblicato nella collana di memorie dalla raffinata Soter editrice di Sassari, Salvatore Tola, autore con Francesco Mura, svela nuovi aspetti della vita dell’antifascista romagnolo, centrocampista della Fiorentina, ventunenne all’epoca dello scatto. Figlio di un capostazione, respira sin dall’adolescenza i sentimenti di avversione al regime. Insieme alle storiche correnti garibaldine e repubblicane, a Faenza prendono corpo le formazioni socialiste e del cattolicesimo sociale. A sedici anni Neri è già contromediano titolare nella squadra della sua città, a diciannove approda nella compagine del giglio dove si afferma sino a indossare la maglia della nazionale di Vittorio Pozzo. Militerà quindi nella Lucchese e nel Torino, raccogliendo consensi ed entusiasmo. Il mondo calcistico lo esalta e il suo cuore di campione libero continua a battere forte anche fuori dai campi sportivi. Si appassiona di arte e poesia, studia all’Orientale di Napoli e investe i suoi guadagni nell’impresa agricola e metalmeccanica sino alla svolta dell’8 settembre 1943.
Dopo l’armistizio raggiunge la Romagna dalla Sicilia dove era stato richiamato come soldato in forze all’ufficio amministrativo. Qui ritrova il cugino Virgilio Neri, alpino, notaio, deciso oppositore del regime fascista che proveniva da Milano: aveva consentito ad ebrei perseguitati di rientrare in possesso dei propri patrimoni trafugati in seguito alle leggi razziali, si era messo in contatto con esuli e fuoriusciti a Parigi, e a Faenza era entrato nella Resistenza. Bruno lo segue. «È nei giorni di confusione e di sbandamento successivi all’armistizio che Bruno Neri prende la sua decisione – scrive Salvatore Tola -. Lo guidavano ancora una volta, insieme alla coerenza del carattere, le convinzioni politiche che, per quanto tenute dietro le quinte dell’attività calcistica, erano ben definite e salde».
La villa Neri a Rivalta si trasforma ben presto in una delle sedi operative degli antifascisti faentini. E a questa casa è legata la vicenda di “Radio Zella”, un apparecchio ricetrasmittente clandestino consegnato dagli alleati ai partigiani nel delta del Po. Lo stesso Bruno Neri, che nel frattempo assumeva il nome di battaglia “Berni”, lo trasportò con altri militanti in bicicletta sino alla dimora di famiglia. A partire dalla metà del mese di maggio del 1944 i contatti radio tra Resistenza romagnola e forze angloamericane si intensificarono in vista degli aviolanci carichi di armi. L’operazione era annunciata da Radio Londra con la frase «La bambola dorme».
La notte tra il 10 e l’11 giugno i cugini Bruno e Virgilio raggiunsero con altri partigiani faentini le alture di Pietramora di Marzeno. Furono paracadutati 36 involucri, annota Tola citando gli studi di Luigi Cesare Bonfante: «Circa 25 quintali di materiale, 50 pistole mitragliatrici Sten con 8000 colpi, 4 mitragliatrici leggere Lewis con 5000 colpi, 200 bombe a mano, 5 quintali di esplosivo e anche 500mila lire». Seguirono altri lanci che consentirono la costituzione del battaglione “Ravenna”, del quale Bruno Neri assunse l’incarico di vice comandante. «In tutto questo periodo ho fatto cospirazione in città e mi sono reso conto che mi hanno scoperto – confidò a un amico il calciatore partigiano presumibilmente nella primavera del ’44 -. Domattina parto e vado in montagna».
Berni desidera combattere, mettersi in gioco, percepisce la necessità inderogabile di respingere e sconfiggere il nemico nazifascista con ogni mezzo. Per questo, in compagnia del comandante della “Ravenna” Vittorio Bellenghi “Nico”, di non meno di quaranta uomini, e del parroco partigiano don Angelo Savelli, si incarica della ricognizione necessaria alla riuscita del terzo aviolancio di materiale bellico. L’obiettivo è monte Lavane, 1200 metri di altitudine a sud-ovest di Faenza. Durante l’avvicinamento alla vetta Neri e Bellenghi procedono in avanscoperta. Ma nella zona circolano tedeschi, genieri impegnati a ricongiungere due strade.
Lo scontro tra i partigiani e i militari della Wehrmacht avviene per caso: «I primi a rendersene conto sono Nico e Berni, potrebbero ancora nascondersi, dietri metri più su c’è una curva… invece scendono ancora e a un certo punto si fermano, si danno la mano, si fanno il segno della croce e si sdraiano con la testa e le spalle al ciglio della mulattiera». Il riparo è inadeguato, i tedeschi sono più lontani e coperti e sparano. Bellenghi e Neri muoiono uno dopo l’altro. Avevano 31 e 34 anni.
(walter falgio)