(25 aprile 2019) La sera prima di morire Leone Ginzburg scrisse una celebre lettera alla moglie Natalia. Il 4 febbraio del 1944, dall’infermeria del carcere romano Regina Coeli dove il letterato antifascista versava in condizioni critiche dopo aver subito interrogatori e torture dai nazisti, dedicava queste ultime parole alla donna amata: “La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro”. Parole che hanno attraversato i decenni del dopoguerra lasciando tracce profonde attraverso quel libro fondamentale che è Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952) e che oggi, dopo 75 anni, sono riecheggiate per pochi secondi in televisione su Rai Storia.
Racchiudono un tema che accompagna o dovrebbe accompagnare la riflessione di chi, sotto diversi profili, storico, letterario, appunto artistico, affronti le problematiche della trasmissione della memoria, della conoscenza, del vissuto. La scrittura, la narrazione, il racconto, come strumento e come modalità di pensiero, sono questioni aperte sulle quali si sono sviluppati e sono in corso dibattiti rilevanti che qui sarebbe impossibile anche riassumere. Ricordo solo alcuni titoli italiani interessanti: 1938, storia, racconto, memoria (2018), con una breve ma illuminante introduzione del curatore Simone Levis Sullam e una utile bibliografia; Il passato: istruzioni per l’uso (2006), di Enzo Traverso; Dopo l’ultimo testimone (2009) di David Bidussa; Il filo e le tracce (2006), di Carlo Ginzburg.
La necessità di sciogliere i nodi del continuo rapporto dialettico tra la puntuale narrazione e il metodo scientifico della storia (ma non solo) scaturisce anche dall’esigenza impellente di adeguare ricerca, didattica e comunicazione a nuove generazioni che assimilano il sapere con tempi e modalità in costante mutazione; e dalle conseguenze della scomparsa quasi totale dei testimoni (non a caso) delle persecuzioni del nazifascismo e della guerra di Liberazione. Si pone dunque inderogabile l’elaborazione di sempre più efficaci forme di trasmissione degli studi, in contrasto con le menzogne, i revisionismi, le semplificazioni, le enfatizzazioni. Il “come fare” è un vasto campo aperto e il racconto è solo una delle opzioni possibili. Il rispetto del rigore scientifico, la comparazione e quindi la ricostruzione della realtà dei fatti, un dovere.
Natalia Ginzburg, poco più di 20 anni dopo la lettera del marito, e a seguito di non facili tormenti personali – (I dolori non guariscono mai: però a un certo punto si guardano con distacco. Io non riesco ancora a guardarvi con distacco – 1963) – pubblicava Lessico famigliare, un ritorno alle origini, con una avvertenza: “Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato”.
Quella lettera di Leone Ginzburg, quelle lettere dei condannati a morte restano dunque un passepartout fondamentale per cogliere un racconto profondo e vivo della Resistenza insieme al caleidoscopio ricchissimo di implicazioni e rimandi a esistenze vere, vissute e purtroppo violentemente interrotte. “Io spero (ci conto) che un giorno i miei figli le leggano, le lettere dei martiri dell’antifascismo. Io spero (senza contarci troppo) che le leggano un giorno anche i figli dei miei figli”, scrive Sergio Luzzato.
(wa.f.)