Archivio mensile:Maggio 2017

Porrajmos e pregiudizio, gli studi di Luca Bravi

(2 maggio 2017) Luca Bravi, storico, studioso della persecuzione e dello stermino di rom e sinti sotto nazismo e fascismo, ha il merito di narrare con grande chiarezza e coraggio un fenomeno rimosso, misconosciuto, attraversato da mille lacerazioni e dimenticanze. Alla base di quella che, in sostanza, è una discriminazione razziale e una mancata affermazione dei diritti umani inalienabili, si colloca lo stereotipo. Un gigantesco e attuale pregiudizio nei confronti di una popolazione europea, come rimarca Bravi, “pienamente inserita nella nostra società”. Recentemente lo storico è stato ospite della Biblioteca gramsciana Onlus e di altre associazioni per tenere un incontro nel Comune di Villa Verde.

Che cosa è ‘Porrajmos’ e perché si parla di una “ferita ancora aperta”?

Con il termine Porrajmos – il “grande divoramento” in lingua romanì cioè la lingua dei rom – si indica la persecuzione e lo sterminio di rom e sinti durante il nazifascismo. Rom e sinti lo vivono ancora come una ferita, perché il Porrajmos, costantemente presente nella narrazione storica all’interno delle comunità, risulta invece assente dalla storiografia europea; in Italia, in particolare, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria non nomina il Porrajmos. Nel 2015, il senatore Luigi Manconi ha presentato una proposta di legge per includere anche lo sterminio dei rom e sinti all’interno del testo della legge 211 del 2000 in modo che possa a pieno titolo essere ricordato ogni 27 gennaio.

Ci puoi fornire qualche dato?

Al centro di quest’analisi è necessario mettere la riflessione sulle motivazioni che portarono allo sterminio dei rom e sinti sottolineando che furono motivazioni razziali. La categoria “zingari” era considerata dai nazisti come un elemento razzialmente inferiore e per questo portatrice di due caratteri ereditari da eliminare: l’istinto al nomadismo e l’asocialità. Il nazismo aveva legiferato sulla “questione zingari” fin dal 1933 prevedendo prima la sterilizzazione coatta, poi la prigionia in campi di sosta forzata ed il lavoro schiavo ed infine, con il decreto di Auschwitz del 1942 firmato da Heinrich Himmler, l’invio ad Auschwitz-Birkenau. La ricerca razziale su questa categoria era attiva anche in Italia e ricalcava i teoremi nazisti, tanto che dal 1940, “gli zingari” nel Regno d’Italia furono rinchiusi in campi di concentramento ad essi riservati. L’armistizio fece collassare il sistema dei campi italiani, ma rom e sinti che furono poi arrestati nell’area d’influenza della Repubblica sociale italiana furono poi deportati in particolare nei campi austriaci. Di solito si indica il dato di mezzo milione di caduti rom e sinti per la persecuzione e lo sterminio nazifascista; il dato numerico non è confermabile con certezza, perché carovane furono liquidate immediatamente sul luogo dell’arresto, in particolare nell’est europeo e spesso questi soggetti non erano iscritti all’anagrafe dei paesi di provenienza.

Quale è la visione che la Germania ha elaborato sull’evento, soprattutto in relazione alla Shoah e sul piano della memoria collettiva?

Fino al 1980, la Germania non ha considerato la persecuzione di rom e sinti come uno sterminio di stampo razziale assimilabile alla Shoah: si diffondeva l’idea che la categoria “zingari” fosse stata internata in relazione ad una politica di prevenzione del crimine attivata dal Terzo Reich. I documenti d’archivio dimostrano invece che rom e sinti furono selezionati su precise basi razziali da una specifica Unità d’Igiene razziale che misurava anche la quantità di “sangue zingaro” presente in ciascun individuo; un quarto di sangue zingaro era sufficiente per essere inviato verso Auschwitz. Non è dunque un caso se tra i deportati ed i caduti ci furono anche bambini appena nati che furono sterminati proprio perché considerati un pericolo a livello genetico. Questo tipo di approccio ha permesso alla Germania di non pagare gli indennizzi dovuti alle famiglie rom e sinte. Sul piano della memoria collettiva, gli eventi legati al Porrajmos non hanno avuto alcuna elaborazione culturale e infatti si sono conservati pesanti stereotipi su rom e sinti che proprio al tempo del nazifascismo si richiamano. La Germania oggi ha finalmente inaugurato un Memoriale dedicato alle vittime del Porrajmos che si trova di fronte al Reichstag tedesco nei pressi di quello dedicato alle vittime della Shoah. (Guarda l’intervista al musicista rom abruzzese, Santino Spinelli, rilasciata a Rino Pellino per TGR Rai in occasione dell’inaugurazione del memoriale tedesco il 25 ottobre 2012).

La ricerca sul tema Porrajmos si sviluppa in tempi relativamente recenti: solo per limitarci all’Italia, i primi lavori specifici tradotti risalgono a metà anni Settanta, quale per esempio “Il destino degli zingari” di Kenrick e Puxon. Come si spiega questo ritardo storiografico su un capitolo che a pieno titolo rientra nella pratica del genocidio nazista e della persecuzione razziale?

Si spiega considerando il processo di tenuta a distanza che abbiamo costruito intorno a queste comunità: abbiamo fatto percepire rom e sinti come gruppi distanti dalle vicende che hanno toccato le popolazioni europee; li abbiamo dipinti come soggetti “fuori dalla storia” che al massimo potevano necessitare di politiche rieducative o d’inclusione sociale, mai raccontandoli per quello che sono, cioè comunità che condividono da secoli le nostre medesime vicende storiche. In un certo senso è questa secolare tenuta a distanza che ha negato e continua a negare il legittimo racconto del Porrajmos.

Gli zingari ad Auschwitz: dove e come erano collocati, quale trattamento ricevettero i bambini

Rom e sinti ad Auschwitz entrarono a partire dal marzo del 1943; all’interno di Birkenau erano collocati nel settore BIIE, detto anche lo Zigeunerlager, cioè il campo degli zingari. Vivevano insieme alle proprie famiglie perché usati soprattutto come cavie da laboratorio essendo considerati “ariani imbastarditi”, un dato legato alla loro antica provenienza dal nord dell’india. In questo caso i numeri degli internati di Auschwitz sono precisi, perché anche rom e sinti erano registrati e marchiati sull’avambraccio con la matricola che aveva per iniziale la “Z”; vi entrarono 23.000 soggetti registrati sotto la categoria “zingari”. Il loro campo confinava con quello degli ebrei maschi e fu da quella recinzione che Luigi Sagi e Piero Terracina, entrambi ebrei, ascoltarono le grida che si levarono dal campo BIIE nella notte tra 1 e 2 agosto 1944. In quella data, lo Zigeunerlager fu completamente liquidato e le tremila persone presenti in quel momento in quell’area furono tutte passate per la camera a gas in una sola notte.

Una storia emblematica: Tadeusz Joachimowski e il recupero del libro mastro di Birkenau.

Tadeusz Joachimowski (matricola 3720), sopravvissuto polacco ad Auschwitz, era il prigioniero incaricato di segnare su due libri gli ingressi di sinti e rom in quel luogo: su un libro le donne e sull’altro gli uomini; nell’istante in cui avveniva la registrazione, quelle persone perdevano definitivamente la propria identità diventando un numero. Dall’agosto del 1944 nessuno ebbe più il modo di conoscere il nome dei sinti e rom uccisi in quel luogo. Il 13 gennaio 1949, Tadeusz Joachimowski, il prigioniero che aveva registrato migliaia di nomi e numeri, tornò nel luogo della sua prigionia ed indicò con sicurezza il luogo in cui, nell’estate del 1944, insieme ai compagni di prigionia Irenuesz Pietrzyk (matricola 1761) ed Eryk Porebski (matricola 5805), aveva sotterrato un vecchio secchio di latta con dentro il libromastro dello Zigeunerlager di Birkenau avvolto in degli stracci, prima che quell’area del campo di sterminio fosse totalmente liquidata: lo scavo avvenne nei pressi della baracca 31 ed il secchio tornò alla luce insieme a quelle pagine dense di nomi e di storie interrotte. Oggi quel libro, ristampato e diviso in due volumi con la copertina blu, accoglie i visitatori del blocco 13 di Auschwitz 1 e riconsegna simbolicamente ad ognuno di noi, prima di salire le scale che portano verso la mostra, quei 23mila nomi di uomini e donne che hanno smesso di essere numeri.

La Sardegna è stata una destinazione della deportazione degli zingari sotto il fascismo. Ci spieghi quali sono i contorni della vicenda?

La convinzione espressa da Benito Mussolini che ebrei e rom fossero spie attive contro lo Stato, portò ad ordinare un sempre più stretto controllo sui confini e l’Istria divenne il banco di prova della politica antizingara. Il 17 gennaio 1938 Arturo Bocchini ordinava di contare e categorizzare tutti i rom istriani dividendoli tra soggetti con precedenti penali non pericolosi, soggetti senza precedenti penali e pericolosi e soggetti pericolosi. Il prefetto istriano Cimoroni rispondeva con delle liste di nomi dettagliatissime e tra febbraio e maggio 1938 l’ordine emanato da Arturo Bocchini il 17 gennaio 1938 avviava la pulizia etnica dell’Istria nei confronti dei rom e sinti: questi furono imbarcati sui traghetti e portati verso il confino in decine di paesi sardi, tra le province di Nuoro e Sassari. Arrivarono in Sardegna almeno 80 persone che poi furono disperse nelle campagne e controllate dai carabinieri. In quello stesso anno la medesima pratica di allontanamento venne adottata per i sinti trentini, colpevoli anch’essi di rappresentare una popolazione considerata pericolosa a livello ereditario e dunque spostati al confino in Sardegna per motivi di sicurezza dello Stato.

Quanto ha inciso il pregiudizio storico su Rom e Sinti sulla narrazione di una storia attenta e il più possibile compiuta della loro persecuzione sotto fascismo e nazismo?

Il problema sta tutto nella mancanza di elaborazione culturale rispetto al tema dell’antiziganismo. La fine della seconda guerra mondiale non ha coinciso con la decostruzione dello stereotipo dello zingaro, per questo motivo la maggioranza delle persone continua ad immaginarsi rom e sinti come nomadi e asociali in grado di vivere solo nel campo nomadi, senza sapere che, in realtà, l’80 per cento di queste persone è già pienamente inserito nella nostra società. Purtroppo lo stereotipo è talmente forte che nel 2017 queste persone preferiscono, se possono, non rivelare la propria appartenenza comunitaria per non doversi difendere dai pregiudizi. Mi pare dunque utile segnalarvi il lavoro costruito da Denny Lanza, un regista di origini sinte che vive a Prato, in Toscana e che ha recentemente lanciato la campagna #Guardiamoltre sui social.

La sterilizzazione degli zingari, uno degli abusi perpetrati dal regime nazista, non si è interrotta nemmeno nel dopoguerra. Ci racconti come, dove e perché è stata praticata?

A partire dal 1926 – ma protrattasi per tutti gli anni Ottanta in Svizzera – il dottor Alfred Siegfried ha realizzato una campagna eugenetica dal titolo Les enfants de la grande route che è stata finanziata con fondi statali per eliminare “la piaga del nomadismo genetico” che si rintracciava nel gruppo degli Jenische. Mariella Mehr ha narrato nei suoi libri pubblicati anche in Italia (ad esempio Labambina, Milano 2006) le vicende di sterilizzazione e di rieducazione coatta, fino alla pratica dell’elettroshock, cui è stata sottoposta lei stessa, suo figlio ed altri centinaia di bambini che in quegli anni furono strappati con la forza alle proprie famiglie. Esiste anche un bel documentario radiofonico che consente di approfondire questa storia poco conosciuta.

Quali le attività di sensibilizzazione e dibattito in corso in Italia sul tema Porrajmos? Quali le prospettive della ricerca?

Abbiamo appena chiuso un progetto dal titolo “Insieme” finanziato da Miur ed Unar che ha avuto per partner un gruppo formato da cinque scuole a livello nazionale, l’Università di Siena, il Teatro Ipotesi di Genova, l’associazione Sucar Drom e la radioweb RadioCora.it in rappresentanza dell’Associazione Stampa Toscana: le scuole hanno lavorato sull’informazione e sulla conoscenza rispetto al mondo dei rom e dei sinti, proprio a partire dal Porrajmos, ma per finire con l’incontro con i ragazzi/e in carne ed ossa che già vivono accanto a loro; non posso far altro che suggerire il servizio del TGR Rai 21 aprile scorso che ha raccontato il seminario finale del “progetto Insieme” ed il racconto che RadioCora.it ha fatto di questo progetto che ha coinvolto 5000 persone di cui 3000 studenti: la risposta più bella che potrei proporre.

(walter falgio)