Archivio mensile:Marzo 2013

Facebook ci rende liberi? (E i figli che fanno?)

(11 marzo 2013) Con il social network siamo tutti più liberi, ma anche no. Perché in ufficio, a scuola, al ristorante con gli amici o a tavola con la famiglia forse non ci esprimeremmo con quella velocità tranciante e definitiva che è propria di Facebook (massacro dei puntini di sospensione e strafalcioni a parte). E ci siamo mai chiesti quali effetti provochi ai nostri figli il compulsivo (e invasivo) ditino sullo screen?

Siamo tutti più cauti di persona, eppure così ansiosi di auto rappresentarci appena possibile, di solito sulla nostra piazza preferita: il Web. Perché? Anche se il tema oggetto di diversi studi psicologici è la motivazione che spinge ad iscriversi ai social network, nello specifico Facebook (perché altri, come ad esempio Linkedin, sono spiccatamente "professionali" e quindi delimitano severamente la libertà di espressione, intesa in senso ampio, degli utenti), troviamo affascinante la fase successiva, ovvero la rappresentazione di sé che ognuno dà o vorrebbe dare.

Ci sono, è vero, molteplici usi della Rete e dei social network: possono essere utilizzati a scopo esclusivamente ludico, casuale, oppure come strumento promozionale (ma gli esperti raccomandano parsimonia e una oculata gestione di sé, altrimenti il rischio è di incorrere in spiacevoli e scontati effetti di saturazione).
E chi non ama i giochi, le applicazioni per di più moleste, e non ha una attività da pubblicizzare? Vuole, forse, lasciare una traccia di sé. E qui entrano in ballo diversi fattori, fra i quali la prudenza – forse non tutti hanno capito che quello che scriviamo ci rappresenta, ci identifica e ci fa ricordare dagli altri in un determinato modo – e la capacità di "controllarsi" davanti all'infinità di possibilità che il Web offre.

Anche i blog o i forum di discussione sono uno strumento di espressione, ma è con Facebook che le possibilità sono cresciute in maniera esponenziale: l'immediatezza dello "status" offre l'opportunità di aggiornare la propria rete di contatti sulle proprie emozioni e attività, in tempo reale, e di ricevere in tempi altrettanto veloci gratificazioni o frustrazioni.

E' con questa funzione estremamente "veloce" che noi tendiamo a diventare, come richiamato da un articolo recente di Roberto Cotroneo su "Sette del 15 febbraio", "collezionisti di emozioni". Scegliendone ogni volta una diversa: la canzone che ci piace, la nostra opinione politica, la battuta ad effetto, le dichiarazioni d'amore, di antipatia o anche dei veri e propri micro-manifesti esistenziali. E come tutti i collezionisti, vogliamo aggiungere ogni giorno, più volte al giorno, nuovi pezzi alla nostra raccolta. Che ha, certo, un filo conduttore: noi siamo (o abbiamo scelto, consapevolmente o meno, di essere) caustici fustigatori dei costumi altrui in servizio 24 ore al giorno, romantici appassionati di gattini e aforismi celebri, spensierati "untori" di qualsiasi non-notizia o peggio di immagini inopportune, o, talvolta, davvero noi stessi, come siamo nella vita "reale".

Che poi, anche se può inquietarci, coincide con la nostra connessione permanente. Perché l'onnipresenza sul web garantita dagli smartphone ha eliminato la linea di demarcazione tra i due momenti. Possiamo essere ubiquitari, stare con qualcuno "fisicamente" e anche "virtualmente"; possiamo addirittura sapere e far sapere a tutti dove siamo, unendo definitivamente le due dimensioni, grazie alla funzione di localizzazione del nostro telefono. Il punto è: vogliamo farlo? E perché?

Molte persone lo fanno in relazione a "bisogni di sicurezza (in Facebook le persone con cui si comunica sono solo "amici" e non estranei); a bisogni associativi (con gli "amici" posso comunicare, condividere foto e scambiare opinioni); a bisogni di stima (si possono scegliere gli "amici" ma io a mia volta posso essere scelto da altri. Per cui se tanti mi scelgono accresco la mia autostima) e i bisogni di autorealizzazione" (dagli studi di Ambrogio Pennati, e Samantha Bernardi, psicologa. Questo il link: franzrusso.it.

Questa analisi sembra esagerata? A noi ha fatto riflettere molto, soprattutto il cosiddetto "bisogno di autostima" e "autorealizzazione", ovvero la necessità di conferme e la possibilità di esprimersi che altrimenti, in molti casi, rimarrebbe confinata a una ristretta cerchia familiare e amicale. Siamo tutti, dunque, così fragili e bisognosi dell'attenzione altrui? E il social network ha soltanto evidenziato questo fenomeno del tempo moderno, o in un certo senso lo ha anche provocato? La gratificazione che riceviamo on-line col fatidico "mi piace" (adesso pure approdato alla prima coniugazione con mipiacciare) appartiene alla stessa famiglia dell'appagamento quotidiano e tangibile? (Forse gli stimoli biologici e i rapporti causa-effetto saranno pure gli stessi, ma il peso specifico riteniamo non sia il medesimo). Ognuno, ovviamente, ha la sua risposta: ma vorrebbe "condividere" anche questa?

***

Superata la fase dell'autoreferenzialità dove cerchiamo di rendere conto solo a noi stessi, però e necessariamente, se ne spalanca sempre un'altra. Quella della socialità (e della responsabilità) che per fortuna ancora esiste attorno alla nostra vita. Ciò che noi siamo (o vorremmo essere) nell'universo dei pixel non è soltanto affar nostro. È anche affar loro. Ossia, prima di tutto, dei nostri figli e di chi ci sta vicino.

Se noi impegniamo intere serate viaggiando tra il divano e il palmare, possiamo pretendere condotte diverse dagli altri e dai nostri cari? Anche in questo caso la risposta resta sospesa, ma alcune considerazioni sono d'obbligo.

La dipendenza dei minori dai social network è oramai un tema caldissimo. È della fine del 2009 l'istituzione di un Centro del Policlinico Gemelli di Roma per la cura di quella che di fatto è una patologia: la droga da Rete. Gli scienziati la chiamano, Internet Addiction Disorder . Al Gemelli, spiegano: "Nel 1995 lo psichiatra americano Ivan Goldberg ha definito il concetto di Internet Addiction Disorder (IAD), individuandone sette principali sintomi caratteristici quali: – il bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore "in rete" per ottenere soddisfazione; – la marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano internet; – lo sviluppo, dopo diminuzione o sospensione dell'uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa accade on-line; – la necessità di accedere alla rete con più frequenza o per più tempo rispetto all'inizio; – l'impossibilità di interrompere o di tenere sotto controllo l'uso di internet; – il dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete; – il perdurare dell'uso di internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati dalla rete stessa".

Chi non ha mai accusato almeno uno di questi sintomi, alzi la mano (ma lo faccia davanti a uno specchio).

Detto questo, ecco i numeri dell'Eurispes recentemente riportati sulla stampa: "Il 12 per cento dei bambini tra i 7 e gli 11 anni naviga per più di 2 ore al giorno e il 15 per cento sta per lo stesso tempo di fronte ai videogiochi. Tra gli adolescenti, dai 12 ai18 anni, le due percentuali salgono addirittura al 40 e al 47 per cento. L'85 per cento dei giovani tra i 12 e i 19 anni ha un profilo Facebook". Inutile dire che la vigilanza, la partecipazione e l'esempio dei genitori, giochino un ruolo fondamentale. Gli psichiatri riconoscono una particolare predisposizione all'itinerare internettiano dei nativi digitali. Ma, ovviamente: "Bisogna partecipare a quello che fanno online i bambini e i giovani, comunque abituarli a esprimere le proprie emozioni, a non chiudersi davanti a uno schermo, che rende la realtà distante e ovattata". E il dottor Federico Tonioni, lo stesso che lavora al Centro del "Gemelli", nell'intervista a Repubblica, chiosa: "Siamo tutti più compulsivi, anche noi adulti siamo sempre attaccati a strumenti tecnologici e abbiamo una minore disponibilità affettiva nei confronti dei figli». Ne vale la pena? Condividiamolo.

(francesca madrigali e walter falgio)

Modesto Melis e l’orrore totale

(4 marzo 2013) Modesto Melis è sopravvissuto a un campo di sterminio nazista, a un Konzentrations-Zentrum, all’annientamento totale delle Schutzstaffel SS. È un uomo di 93 anni con austere sopracciglia increspate. Minuto e massiccio come un sardo di montagna a volte si presenta. Padrone di un personalissimo linguaggio in grado di spiegare l’orrore con la semplicità. A conferma che la parola non è mai sufficiente per riportare i dettagli della “non-vita” da deportato, l’ausilio di un taccuino e di due penne ha consentito di descrivere plasticamente la latrina del lager di Mauthausen, una vasca di 5 metri con una coppia di travi parallele a mo’ di trespolo. I costretti la svuotavano a mano con un secchio e una scala. Un giorno lì dentro precipitò un ebreo sfinito che morì senza un gemito e senza nessuno che potesse salvarlo.  

Catturato dai fascisti a Firenze il 4 febbraio del ’44, in seguito a una delazione, Melis è stato deportato nel lager austriaco dopo aver transitato per l’ex carcere di Firenze delle Murate e per i campi di concentramento italiani di Fossoli e Gries. Ha ritrovato la libertà con l’arrivo degli americani a Mauthausen, il 5 maggio 1945.

In occasione della presentazione del libro (organizzata sabato 2 marzo alla Cineteca sarda di Cagliari da GreenWood Consulting di Mariangela Pisanu con Antonello Zanda, Cristina Maccioni e l’autore) che ricostruisce la sua testimonianzaL’animo degli offesi di Giuseppe Mura, Giampaolo Cirronis Editore – io e Vito Biolchini lo abbiamo intervistato. Di seguito riporto i 50 minuti di dialogo suddivisi in cinque file scaricabili.

Questi alcuni spunti emersi durante il dibattito.

La fase di sbandamento che l’esercito regio subisce dopo l’8 settembre ’43 è ben evidenziata nella prima parte del racconto di Melis. Emerge la totale deriva alla quale andavano incontro i soldati: tra chi sceglieva Salò, chi la Resistenza e chi saltava le linee, c’era una ampia zona grigia fatta di espedienti, improvvisazione, rischi e violenza. La Firenze dove lui si trova sbandato tra il ’43 e il ’44 è una città molto pericolosa. I tedeschi si stavano riorganizzando a monte della lenta avanzata alleata e dovevano tagliare le gambe a qualunque forma di resistenza, soprattutto in zone strategiche a ridosso della linea gotica dove si collocava la città, per evitare insurrezioni a sostegno degli angloamericani. Questo spiega la pesante tensione che aleggia nelle parole di Melis.

Aveva mai pensato di darsi definitivamente alla guerra partigiana in clandestinità?

“Ero già stanco di fare la guerra. Con chiunque fossi andato avrei dovuto combattere. Tanto valeva restare sbandato. Come va va. Se non toccava a lui toccava a me”, ripete l’ex deportato nel descrivere le azioni e le uccisioni di fascisti. Come quella consumata in auto, dal sedile posteriore: nel corso del primo arresto, Melis fredda i suoi aguzzini con due colpi alla nuca ravvicinati e si dilegua.

Le descrizioni più forti e sconvolgenti della deportazione, così come in Primo Levi, riguardano le figure dei cosiddetti “musulmani”, i sommersi, i rassegnati, i “votati alla selezione”, coloro che senza scampo erano destinati al gas e alla morte per sfinimento. Gli ebrei certamente, ma soprattutto chi non riusciva a svicolare dalla disciplina mortale del lager. Melis ha conosciuto i non-uomini, i testimoni integrali, sempre per citare Levi, “coloro che hanno visto il volto della Gorgona” e quindi non hanno potuto sopravviverle. Li ha osservati, li ha descritti e ha sperimentato l’allucinante disperazione dell’essere testimone della non-vita, e quindi della non-morte, in loro vece. Levi è così ossessionato dal peso e dalla responsabilità di questa testimonianza al punto da annebbiare persino l’euforia davanti ai russi liberatori: “La libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato”. Per questo in pochi corsero incontro ai salvatori, continua Levi.

Forse anche Modesto Melis ha conosciuto questa strana disperazione.

“Certe situazioni non le posso raccontare – dice – Si camminava al buio. A volte mi chiedo se è vero quello che ho visto e resto imbambolato. Nemmeno io so come mi sono salvato. Quando non avevamo i cucchiai ci si metteva in tre davanti al piatto e guai a chi spostava le labbra oltre il proprio angolo. Mangiavamo sempre roba nera (cenere addensante aggiunta nelle minestre – Ndr.), a volte rane, forse riconoscevo qualche patata. Il vestiti di ricambio erano quelli dei morti. Ho pianto quando in un villaggio tra il campo e le gallerie dove lavoravamo ho visto dei bambini che giocavano su delle biciclette. Ho pianto perché ho ricordato che anche io ero stato bambino”.

Ma perché ha deciso di testimoniare. Qual è la molla che è scattata in lei?

“Sono passati 20 anni prima che decidessi di raccontare la mia storia. Al rientro era impossibile, non mi credevano. Pesavo 37 chili e quando mia madre mi vide svenne. Ho iniziato a parlare nelle scuole. Oggi faccio anche 27 incontri in un mese. Ma all’inizio nessuno mi credette”.

(walter falgio)

IO E VITO BIOLCHINI INTERVISTIAMO MODESTO MELIS (50′ – 2 MARZO 2013)

prima parte

seconda parte

terza parte

quarta parte

quinta parte

SERVIZIO SULL’EVENTO DI MASSIMILIANO MESSINA SU SARDEGNA QUOTIDIANO

SERVIZIO SULL’EVENTO DI DANIELA PABA SU LA NUOVA SARDEGNA