(5 dicembre 2012) Quale rapporto tra la nostra identità reale e quella che vogliamo "vendere" nei social network? Quali condizionamenti o perfino mutazioni subisce la nostra capacità di percepire il reale in funzione dell'utilizzo più o meno assiduo dell'interazione virtuale? Domande alle quali molti esperti hanno cercato di dare risposte e che personalmente mi pongo sempre più spesso da quando utilizzo Facebook e affini. Dopo due anni di attività sulla piattaforma inventata da Mark Zuckerberg e soci, metto in fila a caldo alcune riflessioni.
La prima e forse più evidente difformità che non di rado rilevo osservando la produzione di tanti "amici" nelle piazze telematiche è la progressiva, lieve o massiccia, voluta o meno, trasformazione di atteggiamenti e inclinazioni che, nella vita reale, ritenevo specifici di alcuni (naturalmente il sottoscritto non è esente da questa dinamica). La mediazione dell'applicazione e dello schermo e il desiderio di emergere, oltre a indurre una scontata e in certe misure giustificata esaltazione dell'ego, attivano purtroppo anche una rincorsa sfrenata alla provocazione e alle insulsaggini. In poche parole, a chi la spara più grossa. In altri casi si assiste a improvvise e inaspettate scoperte di talenti e a impennate di genialità che, a ben guardare, durano lo spazio di un istante.
Faccio qualche esempio per essere più chiaro. Un'opera d'arte universale, come un grande classico della letteratura, ci appaiono fuori dal tempo. La vecchia enciclopedia di casa nostra è un oggetto duraturo per definizione. Un giornale quotidiano o gli appunti su un blocco hanno già una vita limitata a un giorno o poco più. La "durabilità" di un post su Facebook o su Twitter, invece, dovrebbe essere misurata con i sottomultipli dei minuti? Si tratta piuttosto di produzioni dell'intelletto umano visibili solo nell'immediatezza e quindi, sostanzialmente, prive di durata?
La somma di tutte queste fugaci esternazioni elettroniche tuttavia rappresenta una carta d'identità sempre più attendibile e sempre più verosimile se filtrata e rimescolata con mirati algoritmi. Siamo ciò che appare, questo non è una novità. Sin quando però l'apparire non diventa una estraniazione dal flusso quotidiano e parallelo degli eventi. Sino a che il nostro "essere telematico" non si tramuta in un costante "essere altrove". Quante volte ci capita di incrociare passanti totalmente chini sul proprio palmare, intenti a gestire la propria mole di interazioni sociali virtuali, e profondamente insensibili ad ogni stimolo esterno? Recentemente ho urtato inavvertitamente una ragazzina che chattava e le ho fatto cadere una sciarpa. Immediatamente mi sono scusato e ho raccolto. La giovane ha afferrato, ha pronunciato qualcosa di incomprensibile, si è girata, ha ripreso il cammino senza mai sollevare lo sguardo dal telefonino.
Questa nuova forma di identità (perfino codificata da un procedimento web), che per ovvie ragioni di controllo industriale e di business ci viene richiesto di incrementare con particolari metodi (si veda il diario di Facebook), assurge quindi a identità psuedo ufficiale, per esempio, nella complessa gestione dati di una campagna elettorale. La monumentale operazione ai limiti dello cyber-stalking orchestrata durante la campagna di Obama da Harper Reed (un ingegnere elettronico ormai icona dell'intelligenza statistica al servizio del potere https://harperreed.org) si è basata molto sui profili Facebook degli americani. «Liberamente forniti dagli internauti, i dati personali attirano le brame. Essi permettono agli agenti di marketing di dotarsi di un target – per sesso, età, data di nascita, lingua, nazionalità, città, livello di educazione, interessi, ecc. – ben più preciso dei sondaggi dei media tradizionali. Con un'audience che si avvicina a quella della televisione», scriveva qualche anno fa il giornalita Philippe Rivière su Le Monde diplomatique.
Consapevoli di quanto sia complicato distinguere i nostri piani di espressione (finta o reale) sulla Rete e che comunque i social network sono per fortuna carichi di molti contenuti intelligenti scritti da persone intelligenti, la preoccupazione maggiore ricade inevitabilmente su chi necessita di maggiori difese. Si legge già da qualche anno: «I bambini che stanno crescendo nell'età del "social networking" potrebbero avere "un danno" nella loro visione del mondo. È questa la denuncia dello psichiatra Himanshu Tyagi fatta durante il convegno annuale del Royal College of Psychiatrists. Il dottor Tyagi ha evidenziato come i ragazzi nati dopo il 1990 non conoscono un mondo senza l'onnicomprensivo uso di internet. E ha ricordato come l'attuale generazione di psichiatri non è detto sia del tutto preparata ad aiutare giovani con problemi di relazione dipendenti da internet. I siti di "social networking" offrono grandi benefici relazionali, ma rimangono potenzialmente un azzardo. "È un mondo dove tutto si muove velocemente e cambia con rapidità – ha proseguito Tyagi – dove le relazioni sono a portata di un click del mouse, dove puoi cancellare il tuo profilo se non ti piace e scambiare, in assoluta segretezza, un'identità non gradita con una più favorevole. Le persone che usano il passo veloce della socializzazione online possono vedere il mondo reale noioso e privo di stimoli».
«Questo sapiente mix di vita privata e di voyeurismo, questo regime caramelloso di trasgressione moderata e di libertà sorvegliata ha costituito la ricetta vincente di Zuckerberg. Facebook è lo specchio magico della nostra epoca egotista e pubblicitaria», concludeva Rivière.
(walter falgio)