Archivio mensile:Maggio 2008

Le ultime parole, poi la tragedia di un uomo

Il 28 febbraio 1978 Aldo Moro
parla ai senatori e ai deputati
democristiani riuniti
in seduta comune. Sedici giorni
dopo, alle 9,15 in via Fani a
Roma, un commando delle Brigate
rosse rapisce il leader Dc
trucidando i cinque agenti della
scorta. Il discorso di Moro all’assemblea
del partito può essere
considerato un testamento
spirituale e politico: “Se mi
chiedete fra qualche tempo che
cosa accadrà, io dico: può esservi
qualche cosa di nuovo”. Il
presidente del partito di Alcide
De Gasperi prefigurava ai suoi
uno scenario che di lì a poco
avrebbe confermato e premiato
la sua strategia di mediatore.
Ma contemporaneamente e
inopinatamente precipitato
l’Italia in uno dei periodi più
drammatici della storia del dopoguerra.
Le ultime parole di Moro pronunciate
nel febbraio ’78 sono
state riascoltate avantieri a Cagliari,
trent’anni dopo l’assassinio
dello statista per mano
delle Brigate rosse.

Le associazioni
“Partecipazione e solidarietà”,
“Aldo Moro” e il “Centro
studi Paolo Dettori” hanno rispolverato
una vecchia e rara
registrazione del discorso tenuto
davanti ai parlamentari Dc.
Gian Mario Selis, Pietro Soddu
e Pinuccio Serra hanno ricordato
la statura morale e politica
del presidente democristiano.
“Ci si pone il problema di non
essere massimamente condizionati”,
spiegava Moro, “ma di
trovare anche, in accordo con
le altre forze politiche, un’area
di concordia tale da consentire
di gestire il Paese”.

Il leader
non usava la locuzione “compromesso
storico”. Preferiva la
parola “concordia”, forse per
non urtare la sensibilità di Enrico
Berlinguer che si rifiutò
sempre, fino alla fine, di considerare
i governi di solidarietà
nazionale come la traduzione
del compromesso storico cercando
dove possibile di mette-
I
re in chiaro le contraddizioni. E
di questo si trattava all’assemblea
Dc. Delle forti contraddizioni
e della crisi profonda che
avevano portato dopo un anno
e 7 mesi alla caduta del governo
monocolore formato da Giulio
Andreotti dopo le elezioni
anticipate del 20 giugno ’76.

Una crisi che secondo Moro doveva
essere superata inaugurando
un “nuovo corso politico”.
Una necessità, dettata prima
di tutto dai numeri. Le forze
di sinistra dopo il ’76 sfioravano
la maggioranza dei voti
sia alla Camera che al Senato.
Alle consultazioni del giugno, le
prime Politiche che portavano
al voto i diciottenni, solo il Pci
aveva ottenuto il 34 per cento
dei consensi contro il 39 della
Dc. Due anni prima il partito di
Moro dovette incassare un’altra
batosta al referendum sul
divorzio. Lo statista democristiano
era il regista della strategia
di avvicinamento al Pci. Le
celebri “convergenze parallele”.

Era importante superare “un
urto polemico quotidiano, come
era nella tradizione a suo tempo
naturalmente comprensibile”,
diceva ai parlamentari riuniti.
L’Italia è devastata dal terrorismo,
la sinistra avanza. Moro
nel suo discorso accenna anche
alla possibilità che dopo trent’anni
di governo la Dc possa
passare all’opposizione. E, forse
con la cifra più alta della sua
sensibilità ai mutamenti, così
come aveva intuito durante il
Sessantotto, il capo democristiano
capisce che bisogna
cambiare strada. Anche con il
coraggio di superare il fondatore
De Gasperi: “Ma vogliamo
renderci conto di quanto sia diversa
la realtà sociale italiana
di oggi, di fronte a quella di anni
e anni fa quando l’onorevole
De Gasperi raccomandava a
noi di essere sostenuti e un po’
riservati in ogni nostro contatto
di aula o di corridoio con i
colleghi comunisti?”.

L’appoggio
esterno dei comunisti, l’accordo
programmatico tra Dc e
Pci “sulle cose da fare per il
Paese”, è la chiave di volta della
strategia morotea. Ancora
una volta i grandi partiti politici
si facevano garanti degli
equilibri democratici ma procedevano
verso una lenta implosione
e un inesorabile distacco
dalla realtà sociale. Distacco
che con gli anni Ottanta e la caduta
del muro di Berlino sarebbe
divenuto definitivo e totale.
Il 16 marzo 1978 Moro percorreva
via Fani per dirigersi
alla Camera. Il giorno si apriva
il dibattito per la fiducia al
quarto governo Andreotti appoggiato
dai partiti della sinistra.
Si chiudeva il cerchio.

Per
la prima volta un esecutivo Dc
era votato anche dal Pci.
Durante i 55 giorni del sequestro
Moro «il senso dello stato
della Democrazia cristiana fu
messo in discussione», dice Pinuccio
Serra, in politica dal
1956, più volte segretario regionale
sardo della Dc. Nel
maggio del ’78 era consigliere
regionale. «Il caso Moro è l’unica
vicenda al mondo in cui si è
rifiutato uno scambio di prigionieri
per salvare un uomo», accenna
calmo Pietro Soddu, presidente
della Regione all’epoca
del ritrovamento del cadavere
del presidente Dc. E poi tuona:
«Lo stato aveva rifiutato di riconoscere
l’importanza della vita
di un uomo».