Partito a cavallo da Tangeri
nel 1325, Ibn Battuta
aveva deciso di raggiungere
la tomba del profeta Maometto.
All’epoca era un ventenne
appartenente a una famiglia
di notabili e giuristi. Come ogni
pio musulmano deve fare almeno
una volta nella vita, anche
Ibn Battuta si era messo in
cammino per La Mecca e Medina.
Ma il giovane viaggiatore
non si era limitato a rendere
omaggio ai luoghi santi dell’Islam.
Aveva intrapreso una
spedizione per il mondo musulmano
conosciuto che sarebbe
durata ventotto anni. Africa,
Medio Oriente, India, forse
Cina sino alla lontanissima
Canton. E nel 1349 anche l’isola
cristiana di Sardegna che
apparentemente non gli riservò
una buona accoglienza.
Ibn Battuta è considerato il
più grande viaggiatore arabo
del medioevo. Il Marco Polo
d’Oriente, sebbene visitò molti
più Paesi del suo predecessore
veneziano.
«Poi da Tunisi ripresi il mare
con dei catalani e raggiungemmo
l’isola cristiana di Sardegna
». Così riportava il compilatore
dei diari di viaggio di Ibn
Battuta recentemente pubblicati
da Einaudi a cura di Claudia
Tresso.
Le gesta dell’esploratore marocchino
sono state rievocate
venerdì scorso a Cagliari nell’aula
magna della facoltà di
Scienze Politiche durante la
presentazione del volume di
Annamaria Baldussi, Patrizia
Manduchi e Nicola Melis, “Le
mille e una strada Viaggiare
pellegrini nel mondo musulmano”
(Franco Angeli, 246 pagine,
20 euro).
All’incontro promosso
dalla Sezione di Studi
africani e orientali del Dipartimento
storico politico dell’Università
ha partecipato Claudio
Lo Jacono, docente di Storia
del Vicino Oriente islamico.
Ibn Battuta continua il racconto
del suo sbarco in Sardegna.
«Un’isola cristiana dotata
P
di un porto straordinario, tutto
circondato da grandi travi in
legno e con un’entrata simile a
una porta che viene aperta solo
quando se ne dà il permesso
». Una simile descrizione
non può che corrispondere al
porto di Cagliari. Anche se il
viaggiatore arabo non cita mai
la città, gli studiosi sono concordi
nel ritenere che si tratti di
Cagliari.
La celebre veduta prospettica
di Sigismondo Arquer
pubblicata nel 1550 nella Cosmographia
Universalis di Sebastian
Munster, aiuta a capire.
Arquer disegnava il porto di
Cagliari circondato proprio da
una palizzata. Porto che nel
Cinquecento conservava ancora
le strutture medievali.
«Sull’isola sorgevano diverse
fortezze ed entrati in una di
queste vedemmo che ospitava
diversi mercati», si legge nel
diario. Era la Cagliari catalano
– aragonese, importante scalo
commerciale della cosiddetta
"rotta delle isole" che collegava
Barcellona con il Levante attraverso
Baleari, Sardegna e Sicilia.
Ma a questo punto della descrizione,
Ibn Battuta rivela la
cattiva accoglienza che i sardi
gli avevano riservato: «Io feci
voto all’Altissimo che avrei digiunato
per due mesi consecutivi
se ci avesse fatti ripartire
sani e salvi, perché avevamo
saputo che gli abitanti dell’isola
avevano intenzione di inseguirci
non appena fossimo
usciti, per farci prigionieri».
Il
diario di viaggio non chiarisce
che cosa sia capitato a Cagliari.
La studiosa del mondo musulmano
Patrizia Manduchi
conferma che non sappiamo e
non sapremo se «ci fosse nell’aria
qualche tentativo di rapimento
dell’illustre ospite e dei
suoi accompagnatori». Ibn Battuta
è costretto a una fuga repentina.
«Uno smarrimento
che raramente si può riscontrare
nelle pagine del racconto
di venticinque lunghi anni di
viaggi», continua Manduchi.
Dopo aver resistito a incredibili
peripezie, naufragi, deserto,
epidemie, assalti di briganti e
pirati, Ibn Battuta si rimette
nelle mani di Dio per salvarsi
dai sardi.
L’unica incursione
nel mondo cristiano gli era stata
fatale. «Comunque ne venimmo
fuori vivi – rassicura il
viaggiatore – e dopo dieci giorni
giungemmo a Tanas», sulla
costa Algerina.
Ibn Battuta non è l’unico protagonista
dei racconti di viaggio
musulmani, genere letterario
che va sotto i nome di "rihla",
ad essere sbarcato in Sardegna.
Manduchi nel suo saggio
pubblicato in “Le mille e
una strada” svela anche la storia
di Ibn Jubayr che nel 1183
a causa di una tempesta si imbatté
in Capo San Marco. «In
questo porto si vedono delle
vestigia antiche che sono state
abitate, ci dissero, da Giudei».
L’arabo partito da Granada
aveva davanti a sé la città di
Tharros. E come successe a
Ibn Battuta, l’impatto con la
Sardegna non fu edificante:
«Un musulmano che conosceva
la lingua del luogo scese a
terra con un gruppo di cristiani
per recarsi presso le abitazioni
più vicine. Ci disse di aver
visto circa ottanta prigionieri
musulmani, uomini e donne,
che venivano venduti al mercato
». Lo sconcerto di Ibn Jubayr
fu grande al punto tale da
invocare: «Che Dio stermini
questi cristiani».
Una delegazione
degli arabi all’ancora nel
Golfo di Oristano incontrò anche
un sovrano giudicale. «Il
colloquio durò a lungo, poi il
sovrano si ritirò nel suo palazzo
». E, sempre come Ibn Battuta,
anche Ibn Jubayr salpò sano
e salvo dalla Sardegna senza
che alcuno gli torcesse un
capello: «Dio ci aveva permesso
di fuggire ai pericoli del mare
che bagna le coste della Sardegna
poiché quella fu la parte
più difficile della nostra traversata
e spesso impossibile da
superare. Che Dio ne sia lodato!
».