A Buggerru tutti lo chiamano
"vasca da bagno".
È uno scavo ciclopico
a forma di catino,
largo 350 metri,
sul ciglio di una scogliera
bianchissima. I primi a
esplorare la roccia calcarea affacciata
su Capo Pecora e Cala
Domestica furono i minatori di
una società chiamata "La fortuna".
La febbre da eldorado scoppiò
nell’Ottocento, alla ricerca
prima del piombo argentifero e
poi della calamina da cui estrarre
lo zinco. Nacque così, nel
1865, la miniera di Planu Sartu,
sul Salto di Gessa nel territorio di
Buggerru. Oggi il gigantesco solco,
attorniato da un cimitero di
case, toglie il fiato. Avvicinarsi è
vietato, avvisano cartelli e recinzione.
Ma anche al di là della rete
l’insolita attrazione di questo
girone dantesco non perde intensità.
Qui i tecnici del Parco Geominerario
in accordo con le amministrazioni
locali stanno studiando
un percorso in tutta sicurezza
che valorizzi un secolo di manufatti
minerari e riporti alla luce
gli scavi più antichi.
Come è stato già fatto per
esempio nell’Isola d’Elba, dove
l’anno scorso 22mila turisti hanno
visitato le immense miniere di
ferro a cielo aperto. Nella vasca
da bagno tutto è fermo dal 1956,
da quando il trenino di Planu
Sartu che attraversava la Galleria
Henry interruppe la sua corsa.
Si sa che il trenino nel frattempo
è rinato. Prenotando la visita
tramite l’Igea, oggi si può
percorrere il tracciato industriale
a bordo dei piccoli vagoni.
Il convoglio trainato da una locomotiva
a vapore proveniente
da Buggerru proseguiva oltre il
piazzaletto di sosta a picco sul
mare e raccoglieva il minerale
trasportato dal fondo dello scavo
con un sistema di tramogge.
Crolli
e smottamenti sul bordo della
falesia hanno cancellato per sempre
i resti di quello che doveva
essere un impianto ardito. Vapore,
rotaie, frastuono e quell’"on-
A
data di congegni" di cui racconta
lo storico Thomas Ashton a proposito
della rivoluzione industriale,
agitavano le antichissime
rocce iglesienti tra Otto e Novecento.
E Buggerru, con l’elettricità
e le strade ferrate, assurgeva a
centro di prim’ordine nella geografia
dell’epopea mineraria.
Lo scavo di Planu Sartu è attraversato
da faglie profonde. Sono
punti di frattura naturale che avvertono
di uno scivolamento della
roccia verso la miniera. Pane
quotidiano per i geologi. Tutt’attorno
mucchi regolari di ciottoli
calcarei sembrano muretti a secco.
In realtà si tratta dei vecchi
percorsi dei vagonetti Decauville
trainati a forza di braccia. Le piramidi
di pietra più alte sono state
invece scrupolosamente innalzate
dai minatori con gli scarti di
lavorazione per recuperare spazio
prezioso.
Restano lì a rappresentare
un monumento a una fatica
in apparenza archeologica.
La grande vasca sprofonda per
50 metri. Il vuoto smisurato e gli
arbusti conquistano la scena. Sulle
pareti dello scavo più lontane
dalla scogliera si distinguono come
in un plastico sfondato antiche
fosse. Affiorano aperture più
regolari di coltivazioni ottocentesche.
Sono gallerie e armature di
legno che pendono nel vuoto come
se la miniera fosse stata sezionata
con un bisturi. Degli impianti
che dal fondo convogliavano
il minerale sul trenino, non c’è
traccia. Quando agli inizi del Novecento
la produzione raggiungeva
l’apice con 10mila tonnellate
di calamina all’anno, la eco di
perforazioni e cedimenti doveva
essere assordante.
Tutto il materiale
estratto doveva essere convogliato
alle laverie di Buggerru
per il trattamento. All’epoca il villaggio
di Planu Sartu contava ben
2750 abitanti, uno spaccio, la
scuola.
Quando, attraversando la strettissima
lingua di roccia che separa
lo scavo dal mare, si rivolge lo
sguardo verso l’orizzonte, ecco
ciò che non si aspetta. Un enorme
lentisco indica la direzione. La discesa
verso la scogliera a picco
sull’azzurro. È la vecchia scala
dei minatori che collegava ai livelli
inferiori dello scavo.
Dal
Geominerario promettono che
questo percorso sarà presto recuperato
e reso agibile. Al momento
non ci si può accedere, lo
si vede in lontananza e lo si conosce
solo dai racconti. Gradoni
scolpiti addossati alla parete
strapiombante sono sepolti dalla
vegetazione. La china si interrompe
su piccoli slarghi davanti
alla bocca di una galleria. Dall’estremità
opposta del tunnel filtra
un bagliore: è l’uscita verso
lo scavo, l’altra parete della sottile
striscia di roccia piantata tra
la vasca da bagno e il mare. Quaranta
metri sotto, onde e faraglioni,
davanti il buio della miniera.
I lavoratori usavano questi tunnel
per scaricare i materiali sterili
a mare. Sino a trent’anni fa
dentro gli anfratti si cercavano
ancora, invano, vene di minerale.
Dall’altopiano a Buggerru ci sono
pochi chilometri. A un tiro di
schioppo è anche l’incantevole
spiaggia di Cala Domestica con i
suoi reperti di archeologia industriale
sotto la torre spagnola.
La grande vasca, oltre a sprigionare
il suo fascino ruvido e
meccanico, racconta anche storie
di lotta e sacrificio. È proprio da
qui, dal villaggio di Planu Sartu,
che il 3 settembre 1904 scoppiò
la rivolta contro le inumane condizioni
di lavoro imposte ai minatori.
Rivolta che il giorno dopo,
a Buggerru, ebbe i suoi martiri.
Felice Littera, Salvatore Montixi,
Giustino Pittau e Giovanni
Pilloni, uccisi dai soldati chiamati
a sedare le prime agitazioni
della storia operaia italiana.