Archivio mensile:Ottobre 2006

Una vita da sbirro (sardo) nell’Italia del terrore

Attraversare gli anni di
piombo a Milano, in forza
alla III sezione antiterrorismo
della Digos, senza sparare
un colpo e senza rimetterci la
pelle, è stata la grande impresa
di Claudio Bachis, “sbirro” di
professione, come semplicemente
ama definirsi. L’agente Bachis
ha appena compiuto 50 anni, di
cui 31 passati in polizia. È uno
dei tanti che appena maggiorenne,
con poche alternative, da Siliqua
ha imboccato la strada dell’arruolamento.
Il balzo dalla
profonda provincia al centro
metropolitano non ha avuto certo
un atterraggio morbido ma ha
proiettato Bachis nel cuore della
barricata. A tu per tu con
scampoli di storia italiana, come
quel giorno di aprile del 1981 in
via Varanini, poco distante dalla
stazione centrale di Milano,
quando “lo sbirro” catturò il brigatista
Mario Moretti.

Senza l’accompagnamento di
boatos e ballerine, qualche giorno
fa Bachis ha fatto sapere in
giro che è stato pubblicato il suo
primo libro. La sua onesta memoria
su questi sei lustri trascorsi
pericolosamente. Il titolo, appunto,
è Vita da sbirro (Robin
Edizioni, 129 pagine, 8 euro),
con la prefazione dell’ex ministro
della Giustizia Oliviero Diliberto:
“Adesso è facile, si dirà,
parlar bene da sinistra delle forze
dell’ordine. Ma allora, negli
anni di cui parla Bachis in questo
libro, quello era un argomento
tabù”. E aggiunge: “La sinistra
non pensa più – salvo qualche
caso isolatissimo – che i poliziotti
siano sbirri cattivi”.

Anche
perché Bachis non è certo il
prototipo di uno sbirro cattivo.
Dalla lettura del libro traspare
tutt’altro.
Fate le premesse d’obbligo,
“sono un servo dello Stato, e come
tale ho un sacco di nemici”,
Bachis rovescia immediatamente
il mito televisivo del superpoliziotto,
non separando mai il
ruolo dalla personalità e dalla
sua critica visione delle cose:
“Cercavo di capire il motivo e il
perché della scelta della lotta armata.
Più volte ho pensato che
se non fossi stato uno sbirro probabilmente
avrei potuto essere
dall’altra parte della barricata.
E non venitemi a dire che i brigatisti
erano manovrati dai Servizi”.
Meglio Camilleri del “Distretto
di polizia”, meglio definirsi
con Pasolini, “figlio del proletariato”,
in guerra con ordinaria
desolazione e disoccupazione
cronica.
Diventare guardia di pubblica
sicurezza nel ’76 significava “alloggiare
in una camerata con otto
colleghi” e fare la doccia all’aperto:
“Di fronte alla mia Com-
A
pagnia, la Seconda, sorgeva una
fabbrica e tutte le sere si sentivano
acri odori di sostanze chimiche
mischiate alla nebbia”.

I miti
di Bachis, ragazzo poliziotto,
sono Che Guevara e Bob Marley,
ma pure Enrico Berlinguer ed
Emilio Lussu. Icone scomode in
caserma, allora più che mai. La
riforma della polizia dell’81 era
ancora lontana e la sola immagine
dell’Ernesto rivoluzionario
poteva sortire brutti effetti: “Un
pomeriggio un pazzoide in divisa
da poliziotto, infuriato per un
poster del Che appeso alla parete
della camerata, impugnò l’arma
in dotazione e sparò un colpo
che andò fuori bersaglio”.
Mettere d’accordo tensione civile
e spirito critico con la divisa,
all’agente di Siliqua è costato
non fare carriera e subire trasferimenti.

Ma Bachis i galloni li
guadagnerà sul campo. Il 4 aprile
1981 alla questura di Milano
arriva la soffiata che Mario Moretti,
super ricercato delle Br, si
trova in città: “Alle 14,30 Moretti
e Senzani vengono avvistati e
pedinati, fiancheggiano via Venini,
proseguono per via Varanini,
finché ce li troviamo di
fronte”. Il poliziotto sardo si
stacca dal gruppo dei colleghi,
aggancia Moretti per le braccia,
“c’è una breve colluttazione e lui
ha la peggio, sanguina dal naso.
Gli viene sfilata una Browning
calibro 9”. In questura Bachis
tenta di scusarsi con Moretti per
il cazzotto, “ma lui, educatamente
e freddamente, mi fa capire
che non era sua intenzione aprire
bocca”. Gli agenti impegnati
nell’arresto dei brigatisti furono
premiati con trecentomila lire.

Nel 1987 Bachis tornò in Sardegna:
prima alla questura di
Oristano e poi a Cagliari. Nel ’90
si mischiò agli universitari della
Pantera e in assemblea votò a
favore dell’occupazione. I tempi
di Milano erano lontani anni luce.
Vita da sbirro è dedicato ai
poliziotti caduti negli anni del
terrorismo, ma anche “ai morti
che stavano dall’altra parte della
barricata”.

Appello per l’Iran: l’isolamento può ucciderci

Mehran Sadoughi è un
iraniano di 40 anni. Da
22 vive a Cagliari e fa
l’odontoiatra. Ha tre figli battezzati
e una «moglie cristiana
». Ci tiene a sottolineare:
«Mio fratello, invece, vive in
Belgio con una moglie ebrea».
Basta parlare con lui pochi minuti
per capire che non si ha di
fronte un fondamentalista:
«Occidentali e iraniani hanno
molte cose in comune».
Crede sopratutto nella famiglia
e in un Dio che secondo le
culture assume nomi differenti.
Oggi ha deciso di lanciare
un appello perché teme una
guerra contro gli Usa. «Chiedo
aiuto al popolo italiano. Io, come
buona parte degli emigrati
iraniani, sono preoccupato per
i miei familiari rimasti in
Iran».

Perché?

«Temo un conflitto con gli
Stati Uniti».

Come vi può aiutare il popolo
italiano?

«Interessandosi alla crisi
Iran-Occidente».

Il presidente del Consiglio
Romano Prodi lo sta facendo
in prima persona.

«Sì, ma chiedo aiuto a tutti
gli italiani. Dovete cercare di
informarvi, capire chi sono gli
iraniani. Perché mai dovremmo
passare dei guai per colpe
che non abbiamo?».

Da quanti anni vive in Italia?

«Ventiquattro».

Quali sono i valori della sua
cultura d’origine che insegnerà
ai suoi figli e quali invece
quelli della cultura occidentale
che ritiene di aver
sposato?

«Non esistono grandi differenze
tra la cultura di un iraniano
e la cultura di un italiano
o di un americano. Ci sono
tante cose che ci accomunano
».

Per esempio?

«Il valore che si conferisce
alla libertà, il senso della famiglia,
della giustizia, l’onestà.
M
Io, per esempio, ho i figli battezzati
».

È innegabile che esistano
degli aspetti della cultura
islamica difficilmente integrabili
nella cultura occidentale,
e viceversa.

«Non parlerei di cultura islamica.
Parliamo di cultura delle
persone, di come vivono, di
quello che leggono. I ragazzi
iraniani usano Internet, abbiamo
le parabole».

Parliamo di emancipazione
della donna in Iran.

«Le ragazze si coprono con il
velo per strada ma poi nelle feste
private vestono con le griffe
internazionali. Certo, in Iran
è difficile vedere due ragazzi
che si baciano in pubblico, ma
questo non è un fattore che influenza
la cultura di un popolo.
Si tratta di usanze, come il
chador, che non devono costituire
una separazione tra culture.
L’Iran è un paese pieno
di sfaccettature».

Perché è partito dall’Iran e
ha scelto la Sardegna?

«Sono partito dall’Iran a 17
anni, durante la guerra contro
l’Iraq. Sono arrivato in Italia,
non tanto per scappare dal
mio Paese, quanto per salvarmi
la vita. Sono stato a Padova
e poi in Sardegna».

In Sardegna come ha vissuto?

«Inizialmente ho usato i soldi
che mi aveva dato mio padre,
poi ho dovuto lavorare.
Due giorni dopo l’esame di diploma
al liceo Michelangelo di
Cagliari, ho cominciato a fare il
carrozziere, poi il panettiere e
il rappresentante di oreficeria
e gioielli. Sono stato cameriere
a Santa Teresa di Gallura, d’estate,
mentre d’inverno facevo
il cuoco. Intanto studiavo all’Università
».

Qual era la sua vita in Iran
prima di arrivare in Italia?

«Andavo a scuola come tutti
ma almeno due volte alla settimana
facevo “vela” in giro con
una R5 di un mio compagno di
classe senza patente. La massima
trasgressione era ascoltare
Michael Jackson a tutto
volume. Erano gli anni difficili
dopo la rivoluzione di Khomeini
».

Le ragazze?

«C’erano ma noi non le vedevamo
».

I programmi di arricchimento
dell’uranio in Iran
hanno davvero fini pacifici?

«Non saprei. Però penso che
qualsiasi Paese abbia il diritto
di usare l’energia nucleare con
fini pacifici».

Pensa che l’attuale crisi tra
Iran e Occidente si possa risolvere
per vie diplomatiche?

«Me lo auguro. Non vorrei
che succedesse come con l’Iraq,
per cui si è mentito sull’esistenza
di armi di distruzione
di massa solo per dichiarare
guerra».

In Iran una ragazza di nome
Kobra Rahamanpour, accusata
di aver ucciso la suocera
che la perseguitava, è
stata condannata a morte.
Che ne pensa?

«Sono contrario alla pena di
morte».

La sua opinione sulle parole
del Papa pronunciate a Ratisbona
e sulla reazione della
Guida suprema dell’Iran,
Ali Khamenei, che considera
Benedetto XVI uno strumento
nelle mani di Bush e dei
sionisti.

»Preferisco non rispondere».

Lei è credente?

«Credo in un Dio, grande architetto
del mondo che ha
creato gli uomini ed è uguale
per tutti. E che possiamo chiamare
come vogliamo».