Archivio mensile:Settembre 2006

Twin Towers, il dubbio esplosivo

Eravamo convinti di
aver visto e capito
tutto sull’11 settembre?
Le conclusioni della
commissione d’inchiesta
americana sugli attentati
sono attendibili? La risposta
di Giulietto Chiesa, europarlamentare
indipendente
del gruppo Socialista,
è un no tassativo. Dove
è finito l’aereo che si
sarebbe schiantato contro
il Pentagono? E quello caduto
in Pennsylvania?
Perché l’edificio 7 del
World Trade Center è crollato
senza essere stato colpito?
Come è possibile che
la più potente difesa aerea
del mondo non sia stata in
grado di intervenire per
quasi due ore? Secondo
Chiesa a queste e ad almeno
altre 200 domande
non è stata fornita una risposta
plausibile. Della
stessa opinione sono il
giornalista francese
Thierry Meyssan o il teologo
americano David Ray
Griffin che con i loro libri
hanno smontato parola
per parola il rapporto governativo
sugli attacchi
terroristi. Sta nascendo
così un movimento internazionale
che chiede la
verità sul giorno che ha
cambiato i destini del pianeta. Chiesa e l’associazione
Megachip
(www.megachip.info)
hanno addirittura realizzato
un film sul tema che
sarà presentato i prossimi
giorni a Milano.
Venerdì scorso, durante
un’affollatissima iniziativa
organizzata a Cagliari dalla
Rete del Nuovo Municipio
e dal MeetUp locale di
Beppe Grillo, l’ex corri-
E
spondente da Mosca dell’Unità
ha passato in rassegna
le palesi incongruenze
della versione ufficiale
sull’attacco agli Usa
del 2001 e ha chiarito due
presupposti fondamentali:
«Osama Bin Laden e 19
terroristi non possono
aver combinato tutto da
soli». E ha aggiunto: «Io
non so cosa sia successo
l’11/9 e forse nessuno lo
saprà nei prossimi cento
anni.Probabilmente solo
4 o 5 persone al mondo
sono al corrente di come
siano andate realmente le
cose. Tuttavia la versione
ufficiale che ci è stata propinata
è falsa».

Ha le prove di quello
che dice?

«Assolutamente sì. Tutto
ciò che dico e i contenuti
del nostro film, 11 settembre
alla ricerca della verità,
possono essere provati.
Mi limito a elencare
le questioni chiave. Il foro
ritrovato sul Pentagono
dopo l’attentato non può
essere stato causato da un
Boeing 757. È evidente.
Non ci sono i segni delle
ali, non sono stati ritrovati
i motori, i carrelli.Ci vogliono
far credere che
l’aereo si è disintegrato?
Piuttosto il Pentagono può
essere stato colpito da un
missile o da un aereo drone.
E poi la manovra che
il terrorista avrebbe compiuto
per attaccare la sede
della Difesa americana è
impossibile: non si può
scendere da 2000 a 4 metri
di altezza in due minuti
e mezzo a 880 chilometri
all’ora con un 757».

Cosa è successo alla
torre 7 del World Trade
Center?

«Anche in questo caso
la spiegazione può essere
davanti agli occhi di tutti.
Un grattacielo di 40 piani
può crollare improvvisamente
senza essere stato
colpito e solo a causa di
qualche incendio, peraltro
non grave? Si è trattato
evidentemente di una demolizione
controllata.
Questo fatto rompe la logica
ufficiale secondo la
quale gli edifici sono caduti
a causa dell’impatto con
gli aerei».

E le Twin Towers?

«Se anche le torri sono
state minate significa che
decine di persone si sono
dovute recare sul posto ad
allestire le cariche giorni
prima dell’attentato. Si sono
verificati dei black-out
le settimane precedenti
l’11 settembre che probabilmente
hanno consentito
di minare le strutture
mentre i circuiti di sicurezza
erano fuori uso».

Dinanzi a queste rivelazioni
sconcertanti, possibile
che la stampa Usa
non dica niente?

«Non dimentichiamo
che gli Stati Uniti sono stati
colpiti. Alzare la mano è
dire che la versione ufficiale
sull’11/9 non va bene,
è difficile. Non c’è riuscito
Michael Moore, non
ci sono riusciti intellettuali
del calibro di Gore Vidal
o Noam Chomsky. I giornali
non hanno nemmeno
parlato del convegno che
si è tenuto recentemente
a Chicago dove un fisico
della Brigham Young University,
Steven Jones, ha
mostrato piccoli frammenti
delle torri con tracce
di termite. La termite è
un composto chimico usato
nelle cariche cave in
grado di generare altissime
temperature».

In questa sua ricerca
della verità sull’11 settembre
non c’è nulla di
ideologico?

«Nulla. In questo lavoro
non mi sto comportando
da politico bensì da giornalista
d’inchiesta. Non
faccio accuse preliminari.
So solo che non c’è corrispondenza
tra i dati forniti
dalla commissione governativa
e i dati che ho
raccolto sino ad ora. La
versione ufficiale non regge
alla minima delle verifiche.
Se noi riusciamo a
dimostrare questo, portiamo
un significativo contributo
contro la guerra e
contro il tentativo Usa di
imporre il proprio incontrastato
predominio su
tutto il pianeta. Non dimentichiamoci
che siamo
al capolinea: nel prossimo
futuro sulla Terra non ci
sarà posto per due Americhe
».

Quando il corsaro Barbarossa imperversava in terra e mare

Il 18 agosto 1598 la Santa Maria Bonaventura
salpò dal porto di Cagliari
diretta a Tortolì per caricare 350
quintali di formaggio. Era una piccola
nave a vela e a remi chiamata dagli
spagnoli saetia. Una “saetta” dalle
dimensioni ridotte per guadagnare
in velocità e agilità nel caso di approdi
difficili. Alla fine del Cinquecento,
in Sardegna e con una simile
imbarcazione, era meglio prendere il
largo in primavera o d’estate. Il periodo
era decisamente più favorevole
alla navigazione e, nel malaugurato
caso di un’incursione di pirati o
corsari, sarebbe stato più facile cambiare
rotta.
Nicolao Pintor, il proprietario della
saetta, aveva preso tutte le precauzioni
per evitare il peggio. Peccato
che fosse tutto inutile. Alla fonda
vicino a Serpentara, nascosti e in
attesa della piccola
nave sarda, c’erano i
corsari moreschi, coltello
tra i denti e sciabola
sfoderata. Fu
razzia.
La storia della Santa
Maria Bonaventura
e del suo tragico destino l’ha ricostruita
Daniele Vacca, giovane studioso
della Sardegna spagnola, nella
sua tesi di dottorato discussa recentemente
all’Università di Cagliari.

Tutti i particolari sulla vicenda riemergono
dal fondo “Regia amministrazione
delle torri” custodito
nell’Archivio di Stato di Cagliari.
«Dopo la partenza della detta sagetia
dal porto di Cagliari, per caricare
nel porto di Tortolì i detti e altri
formaggi, è stata svaligiata da due
galeote di mori», si legge in uno dei
documenti ritrovati dal ricercatore e
tradotti dal catalano. «E tra le altre
cose hanno preso, rotto o gettato in
mare le tretes», le concessioni per la
commercializzazione ed esportazione
del formaggio.
La piccola saetta fu depredata di
tutto il carico. Tutto ciò che invece
era stato considerato privo di valore
fu gettato in mare dai
corsari, comprese le
due preziose concessioni,
essenziali per
trasportare e vendere
il formaggio, delle
quali erano titolari i
mercanti cagliaritani
Joan Antoni Marty e Montserrat Tristany.
L’attacco avvenne di sorpresa
anche a causa dell’insufficiente apparato
difensivo della zona.

È ipotizzabile
addirittura che i mori avessero
trascorso tutto l’inverno indisturbati
nelle vicinanze della costa. Magari
acquattati in qualche cala, o appostati
dietro uno scoglio. A peggiorare
la situazione si aggiungeva il
fatto che nel 1598 a Serpentara non
esisteva ancora una torre di avvistamento.
Solo nel 1605 il luogotenente
e capitano generale del Regno di
Sardegna, Pedro Sanchez, decise di
realizzare la fortificazione. «La costruzione
della torre nel detto luogo
dell’Isola di Serpentara era una cosa
utile e conveniente e necessaria»,
attesta un documento dell’epoca riportato
alla luce da Vacca, «considerando
gli enormi danni che i nemici
della nostra santa fede cattolica causano
ogni giorno ai Cristiani per non
aver riparo e luogo sicuro onde potersi
ritirare in dette isole e nelle
quali ogni giorno ci sono vascelli di
nemici non visti dalla terraferma».

La Sardegna, assieme a Sicilia e
Baleari, poteva essere considerata
una frontiera della cristianità nel
Mediterraneo occidentale. Esposta
ai continui attacchi barbareschi, bersaglio
delle scorrerie che partivano
dalla costa africana. Khair ed-Din
detto “il Barbarossa” o Torghoud
Dragut erano nomi che evocavano
terrore. «Numerosi i Sardi, pescatori
o abitanti della costa, che rapiti
dai Barbareschi, andavano ogni anno
ad ingrossare le file degli sventurati
prigionieri o dei ricchi rinnegati
ad Algeri», raccontava Fernand
Braudel nel celebre Civiltà e imperi
del Mediterraneo nell’età di Filippo
II (Einaudi).

Tra i tanti che abbracciarono
la religione islamica dopo
essere stati catturati dagli arabi, ci fu
anche Hassan Agà, pastorello dell’isola
di Asinara. Venne fatto prigioniero
dal Barbarossa mentre portava
al pascolo il gregge. Ma in poco
tempo diventò pupillo e luogotenente
del famoso corsaro di Algeri. Non
a tutti però era riservato il trattamento
speciale del giovane sardo.
Molti dei deportati erano ridotti in
schiavitù, come capitò a Miguel de
Cervantes, l’autore di Don
Chisciotte, poi liberato in seguito al
pagamento di un riscatto.

Oltre le coste, le spedizioni corsare
affliggevano anche l’entroterra.
Diversi i paesi del Campidano esposti
verso il Golfo di Oristano ad essere
raggiunti dai barbareschi: Terralba,
Arcidano, Pabillonis, il villaggio
scomparso di Bonorcili vicino a Mogoro.
Uras fu letteralmente devastata
dai predoni del mare. Una lapide
in sardo ricorda la “visita” del Barbarossa:
«A 5 de arbili 1546 esti istada
isfatta sa villa de Uras de manus
de turcus e morus effudi capitanu de
morus Barbarossa». È anche vero
però che questa immagine dell’arabo
crudele ammazza cristiani in parte
è stata costruita dai predicatori incaricati
di riscuotere le imposte a sostegno
della politica spagnola in
nord-Africa, in parte era basata sulla
misconoscenza e sul pregiudizio
verso un nemico lontano e diverso. A
ben vedere l’impero ottomano era
più accogliente verso gli “infedeli” rispetto
al mondo mediterraneo
cattolico.

Cristiani ortodossi ed
ebrei in fuga dalla
Spagna o da Venezia
spesso si rifugiavano
nei più tolleranti territori
arabi. Tuttavia
l’odio ideologico della Cristianità verso
l’arabo era diffusissimo e pochissimi
la pensavano come il filosofo calabrese
Tommaso Campanella, auspice
nel 1599 di un intervento liberatore
musulmano nel Regno di Napoli
allora sotto il controllo spagnolo,
e per questa ragione arrestato.

A parte sbattere in cella cospiratori
come Campanella, dopo il 1574,
anno della caduta di La Goletta sotto
controllo islamico, una delle principali
preoccupazioni della Spagna
di Filippo II era quella di rafforzare
i presidi del Mediterraneo occidentale.
In questo “piano di difesa organico”
viene inserita anche la Sardegna,
spiega Giuseppe Mele, storico dell’Università
di Sassari e autore del recente
Torri e cannoni (Edes). Nonostante
il suo modesto peso economico
e demografico, ma non strategico,
l’isola è interessata dal notevole intervento
di irrobustimento difensivo.

In più a Madrid si temeva anche il
peggio. Si riteneva imminente un’invasione
turca della Sardegna, fatto
che spiega l’intensificazione dei lavori,
il via vai di ingegneri militari nelle
principali piazzeforti, la creazione
di una struttura amministrativa centralizzata.
L’invasione non ci fu
ma le incursioni dal
mare proseguirono.
Serpentara è un
esempio. Come un
esempio sono gli attacchi
tunisini a Carloforte,
Sant’Antioco,
Capo Carbonara sino ai primi anni
dell’Ottocento, con annessi saccheggi
e prigionieri. In seguito all’assalto
all’isola tabarchina, nel 1799, furono
catturati tutti gli abitanti. Più di
900 persone trasportate e tenute come
schiavi in Tunisia. La liberazione
arrivò solo dopo che il papa, i Savoia
e altri sovrani cattolici, pagarono il
consueto riscatto.

Così il fumo delle torri sarde fermò le incursioni dei mori

Torri costiere e castelli di Sardegna
superstar. Oggi in onda
su RaiUno (Lineablu ore 14),
questa estate in edicola con un
quaderno allegato a Darwin,
prestigioso bimestrale di
scienze finanziato dalle fondazioni
Veronesi e Tronchetti
Provera. E poi al centro della
ricerca storica: in un recente
convegno internazionale, Contra
Moros y Turcos, a Villasimius,
si è fatto il punto su “Politiche
e sistemi di difesa degli
Stati mediterranei della Corona
di Spagna in Età moderna”.
Il rinnovato interesse scientifico
e anche mediatico sui presidi
spagnoli e sulle rocche
medievali dell’isola nasce nelle
stanze del Dipartimento di
Studi storici dell’Università di
Cagliari e dell’Istituto di Storia
dell’Europa mediterranea
(Isem) del Cnr.

In un articolo ancora inedito
scritto in occasione di un recente
convegno tenuto a Granada,
lo storico Gianni Murgia
fa il punto sui problemi di difesa
in Sardegna tra Cinque e
Seicento. Dopo la capitolazione
del presidio de La Goletta,
nel 1574, e la riconquista di
Tunisi tre anni dopo, la pressione
turca nel Mediterraneo
si confermava molto forte. In
seguito a questi avvenimenti,
soprattutto, gli spagnoli perdevano
l’avamposto africano più
orientale ed erano costretti ad
arretrare la frontiera difensiva.
«In questo nuovo contesto
politico-militare la Sardegna,
che fino ad allora aveva svolto
un ruolo secondario nello
scacchiere difensivo mediterraneo,
seppure importante,
ora tenderà a ricoprire quello
di avamposto di una frontiera
insulare», annota Murgia,
«confine invisibile tra paesi
cristiani e musulmani». Dopo
il rovescio tunisino si poneva
dunque il problema di non facile
soluzione del potenziamento
della difesa della Sardegna,
«la cui ossatura nevralgica
– continua Murgia – era costituita
dalle tre piazzeforti
marittime della capitale del regno,
la città di Cagliari, dalla
catalana Alghero e da quella di
Castellaragonese», attuale Castelsardo.

Le incursioni barbaresche
non davano tregua all’isola,
spiega Daniele Vacca, neo dottore
di ricerca in Storia moderna:
«Accadeva spesso che i
corsari o i pirati rimanessero
nascosti a ridosso delle coste
per svariati mesi dell’anno,
pronti ad assalire di soppiatto
». Come capitò nel 1582,
«quando gli assalitori riuscirono
a sbarcare nella spiaggia di
Quartu e a mettere a ferro e a
fuoco le ville di Quarto, Quartucciu,
Pirri e Pauli, fermandosi
alle porte di Cagliari».
La Sardegna doveva essere
protetta con urgenza: lo segnalava
anche il Granduca di Toscana
a Filippo II nel 1574. La
rete difensiva costiera veniva
ricostruita a partire dal 1591.

Alla fine del Seicento le torri
sul mare erano già 82. Alla loro
sommità «erano collocati
grandi padelloni, contenitori
di ferro battuto per i fuochi, e
griselle, cestelli di ferro nei
quali si bruciava erica bagnata
e bitume per le fumate», descrive
ancora Murgia. Ma nonostante
gli sforzi per rafforzare
la sicurezza dell’isola, la
difesa continuava ad essere
molto precaria anche perché
le torri avevano solo il compito
di segnalare i pericoli e dare
l’allarme e gran parte di esse
erano prive di armamento
pesante.
«Ora, di quelle torri realizzate
a più riprese soprattutto
nel corso del XVI e del XVII secolo,
spesso a costi troppo alti
o con progettazioni sommarie,
non rimangono che le testimonianze
materiali», commenta
la ricercatrice del Cnr Maria
Grazia Mele su Darwin. Si pone
quindi l’esigenza di una valorizzazione
dei monumenti
per far sì che diventino nuovamente
una rete di collegamento
con il territorio circostante.
La Mele ricorda anche l’uso
delle tecniche multimediali,
«così come proposto per la torre
di Santa Maria Navarrese».

Le antiche fortezze costruite
sulla frontiera tra Islam e Cristianità,
«esaurita già da tempo
la funzione difensiva, devono
costituire un tramite con
l’altra sponda del Mediterraneo
», auspica la ricercatrice.
E segnala che in collaborazione
con il Csic di Madrid (Consejo
superior de investigaciones
cientificas), l’Isem del Cnr
ha varato un importante progetto
di studi sul sistema di difesa
mediterraneo della Corona
di Spagna al quale collaboreranno
decine di Università.
Giovanni Serreli, anche lui
del Cnr, curatore insieme a
Maria Grazia Mele degli atti
del convegno Contra Moros y
Turcos che saranno pubblicati
a breve, si occupa da anni di
castelli medievali. Conosce
palmo a palmo la rocca della
Marmilla a Las Plassas, costruita
per vigilare il meridione
dello stato arborense, o
quella di Acquafredda. «Come
spiegare l’esistenza fin dal
principio del XIII secolo del castello
di Siliqua», si domanda
Serreli, «lontano cioè dai confini
statuali e quasi nel cuore
del Regno di Càlari?». Ed è qui
che si aprono gli scenari più
suggestivi: «Il castello esisteva
almeno dal 1251, ma la sua
cappella dedicata a Santa Barbara,
è di certo precedente e
risale almeno al XII secolo».
Siamo in presenza, verosimilmente,
di un edificio bizantino,
«un castrum sede di una
guarnigione contro i mauri
esiliati nel Sulcis». Da non dimenticare
che sotto la rocca
passava una importante strada
romana che collegava l’antica
Càrales con Sulci, oggi
Sant’Antioco. Solo alla fine del
Regno di Cagliari, 1258, il maniero
di Acquafredda entrò in
possesso del celebre conte
Ugolino «che lo fece riedificare
a guardia dei suoi possedimento
sardi». E qui la storia
diventa leggenda.

Renato Curcio, le armi della critica

Deposta e sepolta la disperata
critica delle armi, oggi
Renato Curcio preferisce
imbracciare le affinate armi
della critica. Parla di carcere,
istituzioni totalizzanti, ospedali
psichiatrici giudiziari e di chi vive
quotidianamente la
detenzione. Parla e scrive
di questo per la casa
editrice da lui diretta,
Sensibili alle foglie. Richiama
folle in tutta Italia
quando partecipa a
dibattiti su ergastolo, indulto,
marginalità sociale.
Come è successo pochi
giorni fa a Dolianova
durante la Festa di Liberazione.
Oggi Renato Curcio è
un intellettuale che non
vuole rimuovere il suo
passato più vorticoso,
«non potrei affrontare i
problemi del carcere
senza il bagaglio della
mia conoscenza diretta
», e che da anni, assieme
ad altri ricercatori,
sta promuovendo la
raccolta di documenti,
dati e testimonianze sull’esperienza
armata di
sinistra.

Un’iniziativa
chiamata “Progetto memoria”
«fondata su rigorosi
criteri espositivi
e non interpretativi»,
specificano dalla casa
editrice, che ha portato
alla pubblicazione di
cinque volumoni preziosissimi
per capire la storia d’Italia
tra il ’69 e l’89. Curcio preferisce
questo paziente e complesso
lavoro di scavo a una semplice
autobiografia, che, secondo
lui, non interesserebbe a nessuno.
Desidera spiegare che cosa
significa stare dentro una cella
di massima sicurezza o su un
letto di contenzione. E lo spiega
attraverso la viva voce di ergastolani
come Annino Mele o detenuti
psichiatrici come Vito De
Rosa.
Dietro a un banchetto tappezzato
dai libri di Sensibili alle fo-
D
glie, lo storico fondatore delle
Brigate rosse si attarda con il
pubblico.

Poi comincia il dibattito
al quale partecipano anche
don Ettore Cannavera della Comunità
“La Collina”, il consigliere
regionale di Rifondazione comunista
Paolo Pisu e il dirigente
nazionale del partito Gennaro
Santoro. Curcio spiega che il
carcere non è una struttura univoca
dove deve essere tutelato il
senso di umanità, come vorrebbe
la Costituzione. Parla di forme
diverse di detenzione. Da
quella nelle prigioni segrete, vedi
Abu Omar, a quella nei centri
di permanenza temporanea che
lui definisce «campi di concentramento
per cittadini indesiderati
». Altra forma tra queste è
la detenzione nelle carceri di
Stato. E qui Curcio va giù duro:
«Il carcere è un luogo al di fuori
del sistema dei diritti, dietro le
sbarre vale piuttosto il sistema
dei privilegi». Che significa: «Se
rispetti le regole e ti comporti
bene puoi usufruire dei benefici,
altrimenti peggio per te».
A questo punto si spalancano
le porte della Cayenna: «Io ho
avuto la fortuna di finire in carcere
nel ’74», continua ironicamente
Curcio, «cioè un anno
prima della riforma. Dopo un
conflitto a fuoco, ferito ad una
spalla, mi sbattono in una cella
senz’acqua né servizi igienici, al
posto del water, il bugliolo. Avevo
la terribile sensazione di essere
precipitato indietro nel
tempo di 300 anni».
Poi sono arrivate le carceri
speciali, l’Asinara in primis con
il suo bunker, e i trasferimenti di
massa coordinati dal generale
Dalla Chiesa di brigatisti, nappisti,
mafiosi.

La rivolta di Fornelli
contro l’“articolo 90”, padre
del 41bis. Curcio ha vissuto da
vicino queste vicende, ma sorvola:
«Il carcere oggi si articola
in tre livelli. Un circuito di custodia
attenuata per reati minori
dove sono concessi i
pacchi, i colloqui, le telefonate;
un altro di media
sicurezza dove i diritti
che diventano privilegi
sono limitati, sino
ad arrivare al fondo, il
41bis, dove il mondo finisce
e resta la solitudine
». Curcio conclude e
si fa avanti Cristiano
Scardella, fratello di Aldo,
il 24enne cagliaritano
morto in carcere il 2
luglio 1986. Parla al microfono,
poche parole:
«Vogliamo capire perché
e come Aldo è stato
arrestato, quali sono le
cause della sua morte e
stiamo ancora aspettando
le scuse ufficiali dalle
istituzioni».

Da Dolianova alla
“Collina” di Serdiana il
passo è breve. Terminato
l’incontro, Renato
Curcio è ospite della comunità
di don Ettore e
cena con i ragazzi in affidamento.
Ci sono giovani
marocchini, rumeni,
e si parla di indulto:
«Come è possibile rimettere
in libertà un immigrato
che fuori di qui
non ha alcun appiglio? In Collina
almeno lavora e segue un
percorso di reinserimento sociale
», lamenta Cannavera. Curcio
annuisce, osserva i ragazzi
che sono stati preparati alla visita
d’eccezione, i ragazzi osservano
lui tra curiosità e timidezza.
Forse non si aspettavano
che l’icona di una stagione
cruenta e oramai tramontata,
con quasi sei lustri di cella sulle
spalle, fosse questo signore di
65 anni, canuto, cordiale e per
nulla rassegnato.