Conversare di “Guerra
giusta e filosofie della
pace” in un salotto letterario,
di questi tempi, potrebbe
apparire vano. Il Libano
che si sbriciola sotto le bombe
israeliane, uomini e donne
iracheni e afgani che crepano
come insetti, mortificano e
scoraggiano qualunque ragionamento.
Risposte ai perché
di tali devastazioni e buoni
motivi che costringono a
pensare si trovano invece
nelle righe di La pace e le
guerre (Cuec, 262 pagine,
16,50 euro), opera collettiva
curata dalla filosofa della politica
Annamaria Loche che
raccoglie gli atti di un seminario
interdisciplinare tenuto
alla fine del 2004 all’Università
di Cagliari.
Il libro dà
risposte ma pone anche altri
dubbi e incertezze utili per
continuare a riflettere e soprattutto
per non farsi abbagliare
da quello che il filosofo
Giuliano Pontara chiama
“dogmatismo fanatico”, concezione
univoca del mondo
per la quale gli interessi “made
in ovest” mascherati da
benessere e democrazia possono
essere seminati oggi
qua e domani là, armi in pugno
e senza dover dare troppe
spiegazioni.
Una discussione sul volume
curato da Loche è stata recentemente
promossa a Cagliari
dalla locale sezione della
Società filosofica italiana
che, sotto la presidenza di
Giancarlo Nonnoi, riprende
la sua attività e inaugura una
nuova serie di incontri culturali.
All’iniziativa ha partecipato
la docente di Storia della
filosofia all’Università di
Cagliari, Maria Teresa Marcialis.
Secondo la studiosa un
presupposto da cui partire è
che la pace non si declina al
plurale: «Non si danno molte
paci, la pace in quanto tale è
un fine e insieme un termine,
la pace in sé è pertanto, come
la intende Kant, “pace perpe-
C
tua”». Diversamente le guerre
sono molte perché scoppiano
in modi, tempi e luoghi
diversi, «continuamente rinascono
e sembrano non avere
mai fine», continua Marcialis.
La contraddizione tra i
due termini è molto evidente:
da una parte un male da fuggire,
dall’altra un bene da
perseguire. Ma passando dal
piano filosofico a quello più
prettamente fattuale, ci si accorge
che esistono anche degli
stadi intermedi tra gli opposti,
emergono modi e percorsi
di costruzione della pace.
Il grande umanista Erasmo
da Rotterdam, scriveva:
«Quasi sempre anche la più
ingiusta delle paci è migliore
della più giusta delle guerre»,
introducendo così una sorta
di gerarchia tra le definizioni
assolute e ribadendo il suo
totale rifiuto nei confronti
della guerra, “infame e folle
impresa”, «confronto da cui,
immancabilmente, ognuna
delle due parti trae più danno
che guadagno».
La pace come obiettivo primario
da perseguire incondizionatamente
è il messaggio
che consente a Erasmo di
«dialogare con noi attraverso
i secoli», sottolinea Marialuisa
Lussu.
Dal Cinquecento si
piomba alla grigia attualità,
all’era delle “guerre umanitarie”:
«Tra i conflitti internazionali
scoppiati negli ultimi
dieci anni, l’intervento armato
della Nato contro la Serbia,
nel 1999, rappresenta il caso
più eclatante di guerra di offesa
giustificata sulla base di
ragioni morali», scrive Alberto
Castelli. Riconoscendo una
profonda contraddizione tra
l’idea di moralità e la guerra,
Castelli si chiede se le armi
siano coerenti con il progresso
sociale e da dove trae legittimità
«il soggetto che si
arroga il diritto di imporre “il
bene” attraverso la guerra».
Le argomentazioni contrarie
alle bombe “giuste” nei Balcani,
si sprecano. Autorevoli
commenti, da Hobsbawm a
Sartori, dallo stesso Pontara
ad Alessandro Pizzorno, sottoscrivono
il fallimento della
politica umanitaria della Nato:
l’intervento ha provocato
più vittime, profughi e distruzione
di quanto ci si poteva
aspettare senza l’intervento.
«La guerra non è cominciata
con il fine di difendere i diritti
umani, e per di più questo
obiettivo ha perso ogni rilevanza
giustificativa dal momento
che la catastrofe, che
la guerra avrebbe dovuto impedire,
è invece accaduta»,
rileva lo storico inglese Hobsbawm.
Passando per le relazioni di
Marco Geuna, Massimo Mori
e Fulvio Venturino, si giunge
alle considerazioni finali di
Giuliano Pontara. Per il massimo
studioso italiano di
Gandhi, il mondo attuale è
pervaso da tendenze naziste
che minacciano la pace e la
convivenza umana «fondata
su distribuzioni eque di risorse
e potere». La lotta alla supremazia,
il diritto assoluto
del vincitore, lo svincolamento
dalla morale, la glorificazione
della violenza, sono solo
alcune delle eredità hitleriane
più difficili da estirpare.