Archivio mensile:Aprile 2006

Giovanni Lay, artigiano della politica

La vita di Giovanni Lay,
combattente e capo comunista,
è parte importante
della storia politica
e civile dell’antifascismo sardo.
Conosciuto soprattutto per essere
stato compagno e “allievo” di
Antonio Gramsci durante la prigionia
nella casa penale di Turi,
il dirigente politico nato a Pirri
nel 1904 è stato protagonista di
70 anni di lotte per la conquista
della libertà e della democrazia
e per la rinascita della Sardegna.
Le sue esperienze sono ora condensate
in una autobiografia con
scritti e memorie curata dalle figlie
Gabriella e Laura, edita dalla
cagliaritana Tema (271 pagine,
25 euro).

Il titolo è una perentoria
dichiarazione d’orgoglio,
la rivendicazione dell’identità
più autentica di Lay: Io, comunista.
Un forte orgoglio
nutrito dall’umiltà e dalla coerenza
di un militante vero. Il libro
è stato presentato avant’ieri
a Cagliari da Pietro Cocco, Manlio
Brigaglia, Francesco Macis e
Tore Cherchi.
A 17 anni, stregato dai discorsi
dei reduci della Grande guerra
e influenzato dal padre, Lay
aderisce al movimento sardista
di Emilio Lussu. Allora lavorava
come apprendista pasticcere nel
caffè di Clavuot e Rizzi in piazza
Yenne a Cagliari. È qui, come ricorda
Peppino Fiori, che nel
1924 avvenne un incontro casuale
tra un giovanissimo Lay e
Gramsci dopo il congresso regionale
del Partito comunista d’Italia.
I primi contrasti con un capo
del fascio di Pirri, tale Sanna,
Lay li racconta così: «Pochi giorni
dopo la marcia su Roma il cavaliere
venne a cercarmi dove
lavoravo. Senza molti preamboli
mi fece pressappoco il seguente
discorso: “Come sai, io sono
un uomo generoso e sai anche
che posso fare del bene a chi mi
è amico. Sono diventato uno degli
esponenti del fascio di Pirri e
conto molto presso i dirigenti del
partito. Tu non perdere tempo,
vienitene con noi, non te ne pen-
L
tirai”».

Lay non accettò l’invito
ma qualche giorno dopo, facendo
rientro a casa, fu prelevato
dal tram e accompagnato dal cavaliere.
Mentre si trovava nella
sede del fascio arrivò il padre:
«Indossava una lunga mantellina
militare grigio-verde che gli
arrivava sotto le ginocchia. Capii
subito che sotto portava a tracolla
il suo fucile da caccia». Il
padre, secco: «Sono venuto a riprendere
mio figlio» e lo trascinò
via per un braccio.
Nel 1923 Lay si iscrive al
Pcd’I, formazione politica all’interno
della quale attraverserà gli
anni difficili della clandestinità e
della prigionia. Nell’immediato
dopoguerra sarà segretario della
Federazione cagliaritana e nel
Comitato centrale del Pci. Risulterà
il consigliere più votato in
assoluto nelle prime amministrative
di Cagliari nel marzo del
1946. Tre anni dopo farà parte
del primo Consiglio regionale
della Sardegna e sarà riconfermato
per quattro legislature sino
al giugno del 1965. Guida l’Alleanza
contadini e pastori sardi
e la Confcoltivatori sino al ’76.
Sarà poi presidente della sezione
sarda dell’Associazione perseguitati
politici antifascisti e dirigente
dell’Istituto sardo per la
Resistenza negli anni Ottanta.
Muore a Cagliari il 3 gennaio del
’91.

«Nel passeggio, su e giù per il
cortile del penitenziario, Gramsci
si accompagna oltre che con
Francesco Lo Sardo, con un giovane
commesso di Cagliari, Giovanni
Lay», scrive Paolo Spriano
nella sua Storia del Pci. Il racconto
dei sedici mesi che Lay
trascorse a Turi in compagnia di
Gramsci e anche di Pertini, dopo
essere stato condannato nel ’28
dal fascismo a sette anni e sei
mesi di carcere per propaganda
sovversiva e associazione comunista,
sono uno dei passaggi più
interessanti dell’autobiografia.
La descrizione dei drammatici
giorni di cella del grande intellettuale
di Ales si sofferma anche
su particolari leggeri, come la
passione di Gramsci per la coltivazione
dei fiori e per la dama:
«Giocava bene e spesso batteva
anche tre compagni di fila. Ma
quando qualcuno più forte di lui
lo mandava sconfitto, allora era
un vero piacere assistere alle
spiegazioni che egli dava del fatto
di aver perso la partita: “Se
non avessi fatto questa mossa,
se fossi stato più attento”… e poi
indicava ai compagni che, per
battere l’avversario, bisogna conoscerlo
e apprestare le armi
adeguate per sconfiggerlo».
Lay riconosce che l’esperienza
di Turi fu determinante per la
sua formazione politica.

Quando
nel ’32, due anni prima della
fine della pena, riacquistò la libertà
e tornò a Cagliari per ricominciare
a diffondere la stampa
clandestina e aprire un negozio
di alimentari in via Sonnino, «le
direttive che il compagno Gramsci
aveva inculcato dentro di noi
trovavano una conferma nei fatti
». Tanto è vero che, come ha
spiegato Pietro Cocco alla presentazione
del volume, non fu
condannato una seconda volta:
«Gramsci gli aveva insegnato a
coprirsi le spalle». La figura di
chi è stato tra i fondatori del Partito
comunista in Sardegna (definito
con felice espressione da
Francesco Macis “artigiano della
politica”) acquista sfumature
private e familiari dalle testimonianze
di amici e figli. Lay sapeva
ascoltare ed era in grado di
confrontarsi con chi non la pensava
come lui. Manlio Brigaglia,
ricorda: «Io non ero comunista,
e Giovanni nonostante ciò è stato
il primo a non guardarmi con
sospetto». Carlo Lay racconta:
«Quando babbo raramente tornava
a casa per pranzo, in via
Millelire, si annunciava con un
fischio particolare e noi gli andavamo
incontro per portargli via
i tre giornali che portava sottobraccio:
il Corriere, l’Unità e L’Unione.
Poi si mangiava, solitamente
minestrone. La pastasciutta
era un’eccezione solo la
domenica».

Giudicati, l’epoca dell’indipendenza

Nella seconda metà dell’XI
secolo alcune migliaia di
cavalieri inglesi fuggono
dalla loro terra sottomessa al dominio
normanno di Guglielmo il
Conquistatore. Allestiscono una
grande flotta che avrebbe dovuto
veleggiare verso l’Oriente bizantino
dove si sarebbero messi
al servizio dell’imperatore. Nel
corso della lunga navigazione si
imbattono in un’isola misteriosa.
Convinti di sbarcare in un regno
di “infedeli”, distruggono e
razziano tutto ciò che trovano.
Ma presto si accorgono che l’isola
è cristiana, quindi dal loro
punto di vista civilizzata, e che è
dotata di una organizzazione
politica autonoma. Rinfoderate
le spade gli inglesi restituiscono
il maltolto e si scusano. In segno
di gratitudine “i prìncipi” di Sardegna
consegneranno ai navigatori
stranieri 1300 servi per
rafforzare gli equipaggi.

Con il racconto di questo episodio,
che resta tuttora controverso,
si apre la nuova, attenta,
ricostruzione della storia giudicale
di Sardegna di Gian Giacomo
Ortu (La Sardegna dei giudici,
Il Maestrale, 361 pagine, 23
euro, terzo volume della collana
“La Sardegna e la sua storia”
coordinata da Luciano Marrocu).
Non a caso il libro comincia
dagli sbarchi inglesi attorno all’anno
Mille, perché, se i fatti fossero
del tutto confermati, dimostrerebbero
l’estraneità della
Sardegna all’Occidente cristiano
sino alla vigilia della riforma
gregoriana. «Quasi un mondo
misterioso», scrive Ortu.

Un
mondo che celava un suo coerente
edificio istituzionale. Quattro
giudici che, al di là delle continuità
con Bisanzio o con Roma,
amministravano l’isola con
equivalente dignità. La prima
traccia inequivocabile dell’esistenza
di questa «nuova maniera
di signoria», così come la definiva
Giuseppe Manno, risale al
14 ottobre 1073. È una lettera
che il papa Gregorio VII invia da
Capua a Orzocco di Cagliari, Orzocco
di Arborea, Mariano di
Torres e Costantino di Gallura.
La storia dell’isola dall’XI al
XIV secolo è stata però spesso
letta e interpretata, a diversi livelli,
ricercando la chiave di volta
di un’autentica autonomia e
identità sarda. Piuttosto si potrebbe
affermare che non esiste
una continuità così scontata e
meccanica tra l’esperienza politica
dei giudicati e l’autonomismo
moderno.
Ortu sta compiendo un percorso
di indagine generale sulle
dimensioni del potere politico
che lo ha portato alla pubblicazione
del saggio sullo Stato moderno
(Laterza). Adesso, nel-
N
l’ambito di questa stessa prospettiva
di ricerca, lo storico
esplora le istituzioni dell’isola
medievale.

La Sardegna dei giudici
è un’analisi della società dell’epoca
sotto tutti i profili, con
particolare attenzione alle dinamiche
istituzionali, politiche e
culturali. L’autore, docente di
Storia moderna alla Facoltà di
Scienze politiche dell’Università
di Cagliari, rielabora esclusivamente
fonti dirette privilegiando
immagini, figure ed episodi reali.
Di particolare suggestione è il
risalto narrativo dato ai giudici
Gonario e Adelasia di Torres,
Barisone d’Arborea, Benedetta
di Massa.
Questa ricerca raccoglie e riesamina
gli stimoli di tutta la
grande storiografia sulla Sardegna
medievale a partire dai classici
studi degli storici del Diritto
Enrico Besta e Arrigo Solmi,
passando per il lavoro sulla proprietà
fondiaria di Raffaele Di
Tucci, arrivando agli “Appunti di
storia giuridica sarda” di Enrico
Cortese. Marco Tangheroni e
John Day.

Nel libro di Ortu gli
elementi di analisi rigorosa dei
documenti si fondono con il racconto
ordinato degli avvenimenti.
Pregio che consente di raggiungere,
oltre al pubblico specialistico,
anche una platea di
lettori più vasta.
In conclusione l’autore lancia
una proposta molto stimolante.
Alla luce di una interpretazione
complessiva, unitaria e coerente
degli istituti della sovranità giudicale
sarebbe utile mettere assieme
tutti i documenti che fondano
tale costruzione politica.
Ortu parla di un ideale Codice
politico della Sardegna giudicale
da realizzare concentrando
tutte quelle fonti normative e ordinamenti
medievali sparsi in
archivi diversi o annessi alla memoria
istituzionale di altre comunità,
per esempio gli Statuti
pisani. In questo modo si potrebbe
raccogliere l’eredità culturale
e politica di quell’epoca dei
giudici che non è sbagliato definire
“epoca dell’indipendenza”.