Archivio mensile:Marzo 2006

E gli Alleati decisero: serve uno 007 nel Sulcis

La Sardegna era al centro
degli interessi dell’intelligence
americana già nel
1943. Dagli archivi di Washington
della Commissione alleata di
controllo, organizzazione che in
base all’armistizio sovrintendeva
il passaggio dei territori italiani
dal governo militare all’amministrazione
politica, emerge la
richiesta del distaccamento di
uno 007 Usa nella provincia di
Cagliari. Lo rivela la docente di
Storia delle istituzioni politiche
all’Università di Cagliari Maria
Rosa Cardia: «Nelle carte della
Commissione alleata ho trovato
una corrispondenza tra due funzionari
dove uno chiede all’altro,
suo superiore, il distaccamento
di un “penguin”, cioè di un agente
segreto, nella provincia di Cagliari.

Il superiore risponde positivamente,
annunciando che il
“pinguino” sarà inviato». Sarebbe
quindi ancor più giustificata
la presenza di agenti Cia in una
zona di particolare interesse per
gli Alleati come quella mineraria
e per di più durante la Guerra
fredda, così come sostenuto dall’ex
sindaco di Carbonia Pietro
Cocco.
La città degli operai, rossa e in
odore di rivoluzione, ha indubbiamente
suscitato le attenzioni
dei servizi segreti Usa nel dopoguerra.
Anche gli storici sardi sono
concordi nel ritenere che alla
fine degli anni Quaranta a Carbonia
potesse agire una rete di
informatori collegata in modo
più o meno formale all’ambasciata
statunitense o al governo
italiano. Una rete probabilmente
non ufficiale ma che riferiva
direttamente a funzionari o
agenti americani. «Sarebbe strano
il contrario», dice Gian Giacomo
Ortu, docente di Storia moderna
all’Università di Cagliari:
«La plausibilità dell’affermazione
di Cocco si fonda sulla realtà.

È noto che in previsione dello
sganciamento dall’Italia di Stati
Uniti e Inghilterra previsto per il
15 dicembre del 1947, il National
Security Council, organo di
consulenza del presidente Usa,
stesse approntando un intervento
anche militare specialmente
in Sardegna e in Sicilia nel caso
di una possibile vittoria elettorale
dei comunisti o di una insurrezione
». In questo scenario Carbonia
era considerata una zona
particolarmente sensibile per la
presenza delle miniere e per l’alta
concentrazione operaia. «Non
dimentichiamo poi che dal maggio
1947 la sinistra è allontanata
dal Governo», continua Ortu,
«e che l’Italia rappresentava per
gli americani una frontiera strategica
rispetto all’espansione del
socialismo e rispetto alla capacità
di influenza culturale che il
L
Paese poteva esercitare anche
all’estero». Secondo il docente la
testimonianza di Cocco può essere
letta come un invito a ricostruire
la storia di Carbonia anche
nel contesto politico generale
dell’Italia del dopoguerra.
Anche Luciano Marrocu, docente
di Storia contemporanea
all’Università di Cagliari, ritiene
ammissibile, nonché autorevole,
l’affermazione dell’ex sindaco.

«Era del tutto plausibile che intorno
al 1947 fiduciari al servizio
degli Usa operassero a Carbonia
», spiega, «ma al momento,
in base alla documentazione da
me analizzata, non sono in grado
di affermare se si trattasse di
agenti o incaricati stipendiati
dalla Cia o di referenti informali
». È invece fuor di dubbio che
durante la Guerra fredda una
città con 17200 operai, sindaco
operaio, avvoltolata di bandiere
rosse, apparisse minacciosa e inquietante
ai custodi dell’ordine
pubblico e degli equilibri atlantici.
«Basti ricordare le imponenti
manifestazioni che ci furono il
giorno dopo l’attentato a Togliatti
», continua Marrocu.
Il 15 luglio 1948 la città intera
partecipa a un comizio in piazza
Roma. L’iniziativa sfocia in tumulti
e devastazioni delle sedi
dell’Msi, del Psi delle Acli e dell’Azione
cattolica. Il giorno dopo,
a Bacu Abis, viene malmenato
un esponente democristiano.

Il sindaco Renato Mistroni e
il segretario della Camera del Lavoro
Antonio Selliti, imputati di
istigazione a delinquere, si rifugiano
in Cecoslovacchia. Nel dicembre
del ’49 la Corte di Assise
di Cagliari riterrà responsabili
di quei fatti 44 persone e le
condannerà a 108 anni di reclusione:
tutto l’apparato dirigente
del partito comunista e del sindacato
era liquidato. Di quell’esperienza
resta una viva testimonianza
nelle lettere di Umberto
Giganti, allora giovane avvocato,
condannato a quattro anni
e sei mesi di carcere per devastazione
e saccheggio, pubblicate
per la Cuec dalla figlia Pia.

Boia e poeti, feste e parrucche Vita dei Viceré e dei loro sardi

Viceré, chi erano costoro? A
partire dai nomi, difficili da
ricordare e da pronunciare,
continuando con le personalità e
passando per le biografie, di quei
parrucconi che tappezzano le sontuose
stanze del palazzo regio cagliaritano
poco o nulla è dato conoscere.

Da qui la bella idea dell’assessorato
alla Cultura della Provincia di
Cagliari e dell’associazione Ekate
di schiodare le pesanti tele, rispolverare
qualche antico racconto, e
cercare di capire meglio, al di là
della lente dello storico, chi erano
questi signori imbellettati. Il tutto
con leggerezza, divagazioni e curiosità.
Ne vien fuori Quattro sono
meglio di uno – Viceré
di Sardegna nel Settecento:
ritratti e racconti,
una mostra allestita
naturalmente
al palazzo regio che
sarà inaugurata venerdì
prossimo alle
17, visitabile sino al 31 maggio dalle
10 alle 17 e il mercoledì sino alle
20. L’iniziativa è stata presentata
ieri dall’assessore Luciano Marrocu
e dalla curatrice Elisabetta
Borghi.
I quattro faccioni, scelti perché i
meno arcigni, i più ammiccanti, i
meno sgraziati, è come se fossero
messi in scena. Recitano una parte
nel teatro contemporaneo sottoponendosi
al giudizio del pubblico.
Prìncipi e attori che si scoprono an-
V
che poeti e viaggiatori, festaioli e
un po’ lugubri.

Il tentativo di leggere
negli sguardi dei piccoli re, di
spogliarli da corazze e broccati e di
sciogliere titoli e onorificenze, mette
in moto l’immaginazione. La guida
privilegiata del percorso tra suggestioni
e parole che riaffiorano dal
Settecento è sopratutto la fantasia.
Eccoli dunque, in ordine di apparizione,
e volutamente
non cronologico.
Francesco Emanuele
Saverio Gravina,
principe di Valguarnera,
ma pure
cavaliere dell’Ordine
della Santissima Annunziata
e tanto altro. Come traspare
dal ritratto «Prese possesso a
dì 27 settembre 1748, partì a dì 9
ottobre 1751». Alla scadenza del
suo mandato i delegati degli stamenti
sardi, gli antichi parlamenti
isolani rappresentanti del ceto nobiliare,
del clero e delle oligarchie
cittadine, gli chiesero di restare.
Non dovevano invece pensarla allo
stesso modo i trecento banditi che
il ferreo viceré fece catturare soprattutto
in Gallura e processare
possibilmente in giornata. D’altro
canto diede prova di liberalità nel
consentire a molti studiosi sardi di
approfondire le proprie competenze
a Torino.
Ma la sua passione doveva essere
la festa. Come quella grandiosa
che organizzò in occasione delle
nozze del duca e futuro re Vittorio
Amedeo di Savoia con Maria Antonia
Ferdinanda di
Spagna. Allora il salone
del palazzo reale
si trasformò in un
teatro. Si rappresentava
per l’occasione
l’opera in musica
Giunone placata.

Il
testo del componimento di Carlo
Capsoni di Alessandria resta a testimoniare
l’evento: decine di invitati,
fasti e drappi delle grandi occasioni.
Tutto questo accadeva a
Cagliari nel 1750. Forse più scettico
e più distante dalla mondanità
doveva essere Don Girolamo Falletti,
delegato dal 1731 al 1735. Ebbe
la fortuna di morire da viceré e
oltretutto in Sardegna.
Per lui furono riservate maestose
onoranze funebri a Palazzo e in
cattedrale. Maestose e inquietanti
come il suo cadavere imbalsamato,
esposto al culmine di una scalinata
tra balaustre e fasci di candele.
Il marchese stette impalato su un
seggiolone con spada e parrucca
per tre giorni e tre notti. Poi un corteo
in grande stile accompagnò il
nobile corpo in cattedrale. La salma
fu deposta su un catafalco e si
celebrarono le esequie
solenni. Ogni
minimo particolare
del funerale era stato
ragionato, calcolato e
programmato dall’ingegnere
piemontese
Augusto De La Vallée
che in pochi giorni preparò le gravi
architetture effimere. Disegni e
didascalie sono a disposizione per
i più curiosi.
D’Hallot des Hayes, di nome Vittorio
Ludovico, era invece un viaggiatore.
Si era messo in testa di conoscere
l’isola da vicino, in lungo e
in largo, incontrare le popolazioni
che avrebbe dovuto amministrare.
Il giro della Sardegna durò tre
mesi e servì anche per riformare i
governi locali. Di questo suo itinerario
resta una relazione dettagliata
e preziosa per capire la società
settecentesca.

Quando des Hayes
arrivò al Capo di sopra, il governatore
della città gli offrì una canzone
composta da Giacomo Carelli, il
gesuita novarese Francesco Gemelli
gli dedicò il poemetto La felicità.
Ma Don Vittorio, che governò dal
1767 al 1771, è ricordato anche
per l’amnistia per i
condannati a meno
di dieci anni di carcere
e per il primo restauro
complessivo
del palazzo regio. Si
deve a lui l’accorpamento
dei diversi
edifici che formavano la residenza
reale in un’unica facciata con il
grande portale e lo scalone a doppia
rampa che vediamo ancora oggi.
A ricordare l’intervento rimane
un’iscrizione sul prospetto.
Infine il poeta, Giuseppe Vincenzo
Lascaris. Si aggregò all’Arcadia
e come da consuetudine compose
con uno pseudonimo, Laurisbo Orifiaco.
La passione per i versi era
precoce, a diciotto anni già pubblicava
le prime liriche e traduceva
pure le tragedie francesi. Nel sonetto
Turchi rotti rimproverava ai
musulmani di non essersi sottomessi
al cristianesimo tanto che si
permettevano ancora di solcare il
Mediterraneo e di assaltare le coste.
Correva il 1784.

Ma al sensibile
cantore furono pure dedicati fior
di componimenti come quello del
giurista algherese Domenico Simon
scritto nel 1778 in occasione del
suo arrivo a Cagliari.
L’intellettuale descrive la città in
festa, fuochi d’artificio e torce la illuminavano
a giorno. La nobiltà
gozzovigliava a suon di gelati, frutta
e liquori di ogni genere. Non
mancavano gli alberi della cuccagna.
In occasione dello sbarco del
viceré Lascaris, che
levò il disturbo nel
1781, scrissero anche
l’avvocato Francesco
Saisi e il gesuita
Angelo Berlendis.
Dai ritratti e dai
racconti, dagli appunti
di viaggio e dalle onoranze
funebri, dalle poesie per le feste e
dalla vita di corte, emergono figure
dei viceré di Sardegna colorate e
frivole, leggere e svagate, ma pure
scure e tragiche. Insomma, figure
tutte settecentesche. I prìncipi misantropi
«che non sanno ridere e
non vorrebbero che neppure gli altri
ridessero» descritti da Ludovico
Antonio Muratori forse erano anche
qualcos’altro.