La Sardegna era al centro
degli interessi dell’intelligence
americana già nel
1943. Dagli archivi di Washington
della Commissione alleata di
controllo, organizzazione che in
base all’armistizio sovrintendeva
il passaggio dei territori italiani
dal governo militare all’amministrazione
politica, emerge la
richiesta del distaccamento di
uno 007 Usa nella provincia di
Cagliari. Lo rivela la docente di
Storia delle istituzioni politiche
all’Università di Cagliari Maria
Rosa Cardia: «Nelle carte della
Commissione alleata ho trovato
una corrispondenza tra due funzionari
dove uno chiede all’altro,
suo superiore, il distaccamento
di un “penguin”, cioè di un agente
segreto, nella provincia di Cagliari.
Il superiore risponde positivamente,
annunciando che il
“pinguino” sarà inviato». Sarebbe
quindi ancor più giustificata
la presenza di agenti Cia in una
zona di particolare interesse per
gli Alleati come quella mineraria
e per di più durante la Guerra
fredda, così come sostenuto dall’ex
sindaco di Carbonia Pietro
Cocco.
La città degli operai, rossa e in
odore di rivoluzione, ha indubbiamente
suscitato le attenzioni
dei servizi segreti Usa nel dopoguerra.
Anche gli storici sardi sono
concordi nel ritenere che alla
fine degli anni Quaranta a Carbonia
potesse agire una rete di
informatori collegata in modo
più o meno formale all’ambasciata
statunitense o al governo
italiano. Una rete probabilmente
non ufficiale ma che riferiva
direttamente a funzionari o
agenti americani. «Sarebbe strano
il contrario», dice Gian Giacomo
Ortu, docente di Storia moderna
all’Università di Cagliari:
«La plausibilità dell’affermazione
di Cocco si fonda sulla realtà.
È noto che in previsione dello
sganciamento dall’Italia di Stati
Uniti e Inghilterra previsto per il
15 dicembre del 1947, il National
Security Council, organo di
consulenza del presidente Usa,
stesse approntando un intervento
anche militare specialmente
in Sardegna e in Sicilia nel caso
di una possibile vittoria elettorale
dei comunisti o di una insurrezione
». In questo scenario Carbonia
era considerata una zona
particolarmente sensibile per la
presenza delle miniere e per l’alta
concentrazione operaia. «Non
dimentichiamo poi che dal maggio
1947 la sinistra è allontanata
dal Governo», continua Ortu,
«e che l’Italia rappresentava per
gli americani una frontiera strategica
rispetto all’espansione del
socialismo e rispetto alla capacità
di influenza culturale che il
L
Paese poteva esercitare anche
all’estero». Secondo il docente la
testimonianza di Cocco può essere
letta come un invito a ricostruire
la storia di Carbonia anche
nel contesto politico generale
dell’Italia del dopoguerra.
Anche Luciano Marrocu, docente
di Storia contemporanea
all’Università di Cagliari, ritiene
ammissibile, nonché autorevole,
l’affermazione dell’ex sindaco.
«Era del tutto plausibile che intorno
al 1947 fiduciari al servizio
degli Usa operassero a Carbonia
», spiega, «ma al momento,
in base alla documentazione da
me analizzata, non sono in grado
di affermare se si trattasse di
agenti o incaricati stipendiati
dalla Cia o di referenti informali
». È invece fuor di dubbio che
durante la Guerra fredda una
città con 17200 operai, sindaco
operaio, avvoltolata di bandiere
rosse, apparisse minacciosa e inquietante
ai custodi dell’ordine
pubblico e degli equilibri atlantici.
«Basti ricordare le imponenti
manifestazioni che ci furono il
giorno dopo l’attentato a Togliatti
», continua Marrocu.
Il 15 luglio 1948 la città intera
partecipa a un comizio in piazza
Roma. L’iniziativa sfocia in tumulti
e devastazioni delle sedi
dell’Msi, del Psi delle Acli e dell’Azione
cattolica. Il giorno dopo,
a Bacu Abis, viene malmenato
un esponente democristiano.
Il sindaco Renato Mistroni e
il segretario della Camera del Lavoro
Antonio Selliti, imputati di
istigazione a delinquere, si rifugiano
in Cecoslovacchia. Nel dicembre
del ’49 la Corte di Assise
di Cagliari riterrà responsabili
di quei fatti 44 persone e le
condannerà a 108 anni di reclusione:
tutto l’apparato dirigente
del partito comunista e del sindacato
era liquidato. Di quell’esperienza
resta una viva testimonianza
nelle lettere di Umberto
Giganti, allora giovane avvocato,
condannato a quattro anni
e sei mesi di carcere per devastazione
e saccheggio, pubblicate
per la Cuec dalla figlia Pia.