Archivio mensile:Novembre 2005

Come tradurre in limba l’architettura dell’Isola

Sembrava che di Antonio Simon
Mossa nessuno volesse
più parlare. Dalla sua
morte, avvenuta nel 1971, poco
o nulla era stato detto e scritto su
di lui. Personaggio difficilissimo
da raccontare, l’architetto aveva
lasciato tuttavia segnali tangibili
e inequivocabili del suo sfaccettato
impegno professionale e
politico. I trent’anni di imbarazzante
silenzio erano stati interrotti
nel 2003 da un convegno
internazionale organizzato a
Sassari dalla Consulta per la promozione
della lingua e della cultura
sarda. Qualche giorno fa a
Cagliari l’associazione Shardana
ha presentato gli atti di quell’iniziativa.
Cinquantatre interventi
ordinati in seicento pagine dagli
storici Federico Francioni e
Giampiero Marras: “Antonio Simon
Mossa. Dall’utopia al progetto”
(Edizioni Condaghes, 18
euro).

Un’esplosione di testimonianze
a dimostrare che l’aver
taciuto per diversi lustri non ha
portato all’oblio. Anzi.
Nato nel 1916 a Padova, documentarista,
regista, pioniere
di Radio Sardegna, giornalista
tagliente sul Solco, sulla Nuova,
su Ichnusa. Architetto della Costa
Smeralda ma non solo, leader
del Partito Sardo d’Azione,
poliglotta e internazionalista.
Sebbene sia molto arduo sintetizzare
il poliedrico impegno di
Simon Mossa, l’accademico dei
Lincei Giovanni Lilliu isola un bel
ritratto dell’uomo politico: «Sembra
di poter vedere in lui un eroe
romantico di un partito giovane.
Di uno di quelli descritti da Tocqueville:
“Quando nascono i partiti
politici hanno per qualche
tempo gli attributi della giovinezza.
Nelle loro passioni e nei loro
eccessi vi è generosità, tensione,
dedizione”». La politica era indubbiamente
al centro della vita
di Simon Mossa.

Il suo anelito
verso l’indipendentismo nasceva
da un interrogativo molto
chiaro: «Si chiedeva se l’autonomia
così come è stata concepita
S
sino ad oggi avesse risposto ai
desideri dei sardi», riflette Bachisio
Bandinu. Secondo l’antropologo
la strada indicata dall’intellettuale
porta coerentemente
a uno stato sardo basato su una
forte coscienza linguistica. Concetto
su cui insiste il docente
Francesco Casula e il leader di
Sardigna Natzione Bustianu
Cumpostu.
Ma il carattere marcatamente
identitario del pensiero di Simon
Mossa si coglie soprattutto nella
sua architettura. «A partire dal
Museo delle tradizioni popolari
di Nuoro e dalla Escala del cabirol
di Alghero, le sue opere riflettono
il legame con la cultura
sarda, con i suoi materiali, con i
suoi luoghi», spiega lo storico
dell’architettura Franco Masala.
Straordinaria la sua attenzione
per l’ambiente: «In questo come
in tanti altri aspetti precorreva i
tempi», continua Masala. La vertiginosa
scalinata che da Capo
Caccia porta alle Grotte di Nettuno
costruita nel 1954 è uno dei
primi interventi di valorizzazione
di un percorso naturale con
finalità turistiche. Il progetto era
stato pensato dall’architetto senza
sconvolgere la parete rocciosa,
mimetizzando pietra su pietra,
esaltando l’ardita verticalità
del paesaggio. È nella sua Alghero
che l’intellettuale coglie le notevoli
potenzialità di uno sviluppo
turistico sistematico. «Era
contrario all’improvvisazione e
credeva in un coordinamento
delle diverse realtà territoriali»,
dice Masala.

La volontà precorritrice
di realizzare un programma
turistico a lungo termine per
la Sardegna, la sua inconfondibile
architettura identitaria e sostenibile
fatta di archi catalani e
latte di calce, portano Simon
Mossa al soglio del principe. L’Aga
Khan lo vorrà nell’equipe dei
suoi consulenti per l’ideazione
della Costa Smeralda. Si trattava
di un Comitato di Architettura
composto da nomi prestigiosi come
Martin, i Busiri Vici, Couëlle,
Rohan, Vietti, Rastrella. «Il compito
di Simon Mossa in questo
gruppo era quello di tradurre in
limba il progetto, immettere un
valore aggiunto costituito dai richiami
alla tradizione», aggiunge
l’architetto Giovanni Pigozzi,
«il tutto lontano dai gigantismi
applicati alle coste sarde che nulla
hanno a che vedere con il paesaggio
dell’Isola». L’intellettuale
algherese «era profondamente
contrario al folklore banalizzato
e irridente, al dileggio mediatico
della lingua sarda, alla riduzione
a macchietta della cultura tradizionale
», argomenta lo scrittore
Alberto Contu.
Di questo “poeta di armonie
territoriali, urbanistiche, umane
e politiche”, come amava definirlo
il leader sardista Mario Melis,
resta ora un documento ordinato.
Un primo passo per comprendere
il pensiero frastagliato
di Simon Mossa, per penetrare il
suo schietto e ruvido linguaggio
politico, come emerge dalla lettura
di una corrispondenza inedita
riscoperta da Federico
Francioni. Per individuare la
geografia del suo impegno internazionalista
ben descritta da
Giampiero Marras.

In fondo Simon
Mossa «era un po’ come i
fantaccini della Brigata Sassari
nelle giornate del giugno sul Piave
», scrive lo storico Manlio Brigaglia:
«Li caricavano sui camion,
e dove gli austriaci aprivano
le falle loro si precipitavano a
turarle. Lui era così: appena
qualcosa andava storto, subito
“metteva lingua”».

Giovane e laureato: «La nuova vita sulla via del Signore»

Ha una stanzetta vuota
nel seminario: letto, bagno,
libreria, scrivania,
ma non è un seminarista.
La sua giornata è
scandita da preghiere,
studio e crocifissi, ma
non è un prete. Emanuele
Meconcelli è uno dei
sedici giovani che da un
anno è entrato nella comunità
vocazionale, praticamente
quella che viene
ritenuta l’anticamera
del collegio ecclesiastico
voluta dall’arcivescovo
di Cagliari Giuseppe Mani.
Una via di mezzo tra
un laico e un uomo di
Dio.

Cagliaritano, laureato
in Economia,
trent’anni, e già responsabile
diocesano dell’Azione
cattolica.
Tono di voce e modi di
fare da leader e davanti
a sé un lungo percorso
verso il sacerdozio
che può
durare fino a
nove anni. La
fede, coerente
e abbagliante,
pare non gli
manchi.

Diventare
prete a
trent’anni, in
piena “dittatura
del relativismo”,
come
direbbe il
Papa, e nel
bel mezzo di
una crisi delle
vocazioni:
non si sente
una straordinaria
eccezione?

«La vocazione
è un dono
di Dio che non
è elargito in base a delle
preferenze. Rispondere
oggi a quello che mi
chiede il Signore è per
me l’unica possibilità di
essere felice».

Perché si parla di crisi
delle vocazioni?

«Sentire una chiamata
di Dio presuppone un
cammino di discernimento
e un silenzio che
oggi purtroppo è corrotto
da una società che
cerca di venderti di tutto
».

Lei sta percorrendo
questo cammino?


«Sì, mi trovo in una situazione
in cui c’è silenzio
e quindi posso capire
cosa il Signore vuole da
me».

Ma questo non sempre
è possibile.

«È decisamente molto
difficile che una persona
distratta capisca cosa
Dio le chiede».

Oltre al cielo, anche
l’arcivescovo Giuseppe
Mani l’ha aiutata a trovare
la strada?

«Il mio cammino di discernimento
è precedente
all’arrivo di monsignor
Mani. Però questo
vescovo, che ha un carisma
specifico perché da
vent’anni forma sacerdoti,
mi ha saputo condurre
nella maniera giusta.
Poi nella mia storia
di fede ci sono altre tappe
fondamentali: il prete
a Poggio dei Pini, don Alberto
Medda, la comunità
parrocchiale, l’Azione
cattolica».

Che cosa ha lasciato
per entrare in comunità
vocazionale?


«Lascio una vita in cui
forse decidevo tutto io
per iniziare una vita in
cui la Chiesa mi accompagna.
Fino a pochi mesi
prima di entrare in comunità
ero fidanzato».

Ha ancora senso il celibato
per i preti?

«Il celibato è un grande
dono perché ci consente
di dedicare un
amore esclusivo al Signore
continuando
ad
amare gli altri
ed essendo liberi
».

Suo padre,
Alberto (presidente
Sfirs),
cosa pensa
della sua
scelta?


«Se questa è
la strada che
mi rende felice
anche lui è
felice per me.
Lui dice che
sarebbe orgoglioso
della
mia scelta».

La Chiesa
fa politica?

«No, la
Chiesa ha il
compito di indicare
ai fedeli
quali sono le scelte per
essere in sintonia con gli
insegnamenti di Gesù.
Tenuto conto che viviamo
in un contesto di relativismo,
il Papa non si
stanca mai di richiamarlo,
è necessario sostenere
una verità profonda».

Sui Pacs qual è la verità?

«Che l’amore è tale solo
se si apre alla possibilità
di procreare, è scritto
nella natura: due fiori
maschi non fanno un
frutto».

Ma qui si tratta di tutelare
i diritti civili di
una coppia in uno stato
laico.

«Per questo scopo esistono
altri strumenti nell’attuale
giurisdizione,
non c’è bisogno di un
matrimonio camuffato
da contratto a termine».

Di quali sacerdoti abbiamo
bisogno?

«Di sacerdoti che amino
gratuitamente come
ama Gesù. E amare non
vuol dire necessariamente
portare le persone
dalla propria parte».

Israel, se l’odio totale si fonda anche sulla scienza

Dostoevskij lo aveva profetizzato
nei Demoni: il
signor Shigaliov per risolvere
definitivamente
la questione sociale propose
«la divisione dell’umanità in
due parti diseguali. Una decima
parte riceve la libertà della
personalità e un diritto illimitato
sugli altri nove decimi. Mentre
questi devono perdere la
personalità e trasformarsi come
in una specie di gregge».
Per far ciò occorrono misure
«assai notevoli, fondate sulle
scienze naturali ed assai logiche
». Nel 1871, mentre in Germania
il nazismo era di là da
venire, lo scrittore moscovita
anticipava gli aspetti abominevoli
della deriva totalitaria novecentesca.

All’epoca la Kulturkampf,
battaglia anticattolica
della cultura voluta da Bismarck
per rafforzare la laicità
dello stato, stava per giungere
all’apice.
Il docente di Storia della matematica
alla Sapienza di Roma,
Giorgio Israel, a Cagliari
nei giorni scorsi per parlare di
pianificazione scientifica negli
stermini di massa del XX secolo,
intravede nel romanzo russo
un paradigma di incubi appena
trascorsi che prendono i
nomi di lager e di gulag. Israel
è molto chiaro, si esprime davanti
a una platea di studenti e
insegnanti invitati da Scienza
Società Scienza, un’associazione
che in occasione dell’anno
mondiale della fisica ha promosso
un nutrito calendario di
conferenze.
Quando non si accetta l’uomo
per quel che è, quando non si
tollerano la pluralità, i conflitti,
i limiti, è facile approdare a una
palingenesi totale della società.

La rifondazione del genere
umano, come la narra Dostoevskij,
è un ritorno alle origini.
Un’innocenza primordiale da
raggiungere attraverso una serie
di rigenerazioni. Il prefigurare
i tratti di un destino tenebroso
tutto dentro la coscienza
dell’uomo, secondo Israel, è
stato un grande insegnamento.
Ma soprattutto immaginare che
l’odio totale possa esprimersi
attraverso principi razionali
fondati sulla scienza, rappresenta
una chiara evocazione
degli orrori di Auschwitz e della
Siberia, sottolinea il matematico.
Accostare il totalitarismo fascista
a quello comunista è però
sempre rischioso. I due universi
astratti dai propri contesti
specifici, incasellati in una generica
par condicio della storia,
possono svuotarsi di oggettività.
«Esiste una naturale ripulsa
a metterli sullo stesso piano
», dice Israel, «in quanto non
bisogna dimenticare che il comunismo
è stato adiacente a
movimenti di emancipazione
degli oppressi nati per migliorare
la società». Tuttavia, entrambe
le ideologie, in determinati
casi, hanno individuato il
male nella democrazia, «sono
D
rivoluzionarie, atee, anticristiane,
antiebraiche, disprezzano
la legge in nome della volontà
delle masse. Hanno la pretesa
di reinventare il mondo sulla
base di universalismo e nazionalismo
».

Dall’analisi dei totalitarismi
novecenteschi emergono inevitabilmente
tratti comuni, sebbene
lager e gulag (acronimo di
glavnoe upravienie lagerej, amministrazione
generale dei
campi) non possano essere
esclusivamente assimilati. È
qui che il terreno diventa franoso.
La ricerca di aspetti simili
tra le forme di organizzazione
scientifica dei due strumenti
di oppressione e di repressione
è difficile perché gli studi in
materia sono sbilanciati. Si sa
molto della macchina di morte
hitleriana, si sa molto poco dell’universo
concentrazionario
creato sin dai tempi della Russia
zarista e di Lenin nelle isole
Solovki. Il nazismo ha istituito
campi di sterminio in mezza
Europa per ragioni razziali,
Stalin ha voluto i gulag disseminati
in tutta l’Unione sovietica
per rinchiuderci kulaki e
subkulaki, controrivoluzionari
e “nemici del popolo”.

Aleksandr
Solzenicyn nel suo celebre
Arcipelago Gulag (Mondadori),
spiega come si potesse essere
comunque deportati nelle tundre
gelate anche senza motivo.
Nonostante da un lato si sia
configurato un apparato per
l’eliminazione dell’uomo e dall’altro
un’organizzazione per il
lavoro forzato, il risultato finale
non cambia: «In un caso e
nell’altro si moriva non per ciò
che si era compiuto ma per ciò
che si era», sostiene Israel. E
per far morire milioni e milioni
di persone occorreva necessariamente
una pianificazione
precisa, oggettiva. Scientifica,
appunto.
Edwin Black in L’Ibm e l’olocausto
edito in Italia da Rizzoli,
dimostra come i nazisti utilizzassero
la tecnologia fornita
dalla nota società americana
per effettuare i censimenti di
ebrei, dissidenti, zingari, omosessuali.
Si trattava di macchine
Hollerith a schede perforate
costruite dalla succursale tedesca
dell’Ibm.

Una di queste è finita
all’Holocaust Museum di
Washington. «Come avrebbe
fatto altrimenti la Gestapo ad
avere disponibili tutti gli indirizzi
delle persone da deportare
di un’intera città?», si chiede
Israel. «Per esempio, mio
padre si salvò solo perché aveva
cambiato residenza».
Il ricorso agli strumenti tecnici
e la procedura esatta di classificazione
e schedatura furono
determinanti per il raggiungimento
dell’obiettivo genocidio.
Ad ogni numero impresso nel
braccio del deportato corrispondeva
una scheda perforata
in ufficio. Il matematico ricorda
che nel 1937 Hitler decorò
con una medaglia al merito
l’allora responsabile dell’Ibm
Thomas Watson. La multinazionale
americana si difende
dicendo che non poteva sapere
come sarebbero state utilizzate
le macchine Hollerith e che dopo
lo scoppio della Seconda
guerra mondiale la propria filiale
tedesca era sotto il controllo
del Reich.

«Sui gulag sappiamo meno»,
ripete Israel, «non abbiamo archivi
e documenti a disposizione
come per i campi di sterminio
tedeschi». Però a proposito
della pianificazione razionale
qualcosa emerge. Lo stesso Solzenicyn
descrive la disposizione
particolare dei prigionieri
sui treni per ottimizzare gli
spazi. Una organizzazione per
il lavoro forzato centralizzata
non poteva che seguire indicazioni
precise. «La prima impressione
che si può avere studiando
i gulag è quella di una
struttura scarsamente efficiente.
Si capisce poi come gli intenti
non erano per nulla caotici
», riflette Israel. L’autore di
Arcipelago Gulag ricorda il caso
di un internato che propose
di migliorare gli aspetti di inefficienza
dei campi applicando
un principio basato sul cottimo
differenziale: più si lavora e più
si mangia. L’idea fu tramutata
in una scala di nutrizione che
necessariamente innescò un
meccanismo di selezione infernale.
Alcuni prigionieri avevano
la possibilità di sopravvivere
e rafforzarsi, altri deperivano
in poco tempo andando incontro
alla morte. In tal modo
si massimizzava il rendimento
minimizzando i costi. L’ideatore
del sistema probabilmente
conosceva le teorie di Taylor.
Da deportato divenne ben presto
uno dei capi del gulag, fu
decorato e nominato generale.
Riuscì addirittura a salvarsi
dalle epurazioni di Stalin.