Archivio mensile:Agosto 2005

Solinas, il generale fascista che si oppose ai nazisti

La storia del generale
bonorvese Gioacchino
Solinas è stata relegata
colpevolmente in un cono
d’ombra della memoria
per 60 anni. Difficile trattare
la biografia di un ufficiale
del regio esercito
che combatté contro i tedeschi
durante la resistenza
romana di Porta
San Paolo e che, poco dopo,
aderì alla Repubblica
sociale italiana. Difficile e
scomodo. Tanto meglio
dimenticare, cassare l’episodio
sciagurato e far
sparire le prove. Dal libretto
personale del militare
sardo, custodito nell’Archivio
centrale dello
Stato, qualcuno ha strappato
le ultime pagine. La
carriera si interrompe
quel fatidico 8 settembre
del 1943. Su ciò che è successo
dopo, è meglio tacere.
A ricostruire la vicenda
di un personaggio che
frettolosamente potrebbe
essere etichettato come
“fascista antitedesco”, ci
pensa ora Daniele Sanna,
dottorando di ricerca sassarese
nell’Università di
Pavia, che in un libro pubblicato
da AM&D Edizioni
di Cagliari traccia un profilo
documentatissimo del
generale.

Da Porta San
Paolo a Salò (12 euro, 171
pagine) è interessante prima
di tutto perché riporta
una memoria inedita di
Gioacchino Solinas. La
sua schietta e personale
versione dei fatti, ritrovata
casualmente tra le carte
di un altro generale
senza peli sulla lingua,
Antonio Tedde di Torralba
che invece passò coi
partigiani. Del quale è stato
pubblicato il diario a
cura dello stesso Sanna
per Franco Angeli editore:
Un ufficiale scomodo
dall’armistizio alla guerra
di Liberazione.
La memoria di Solinas
avrebbe dovuto esser parte
di un’opera da scrivere
a quattro mani con Tedde
tra il 1966 e il ’67. Non se
ne fece nulla ma per fortuna
sono tornate alla luce
80 cartelle che aiutano
a capire drammi, contraddizioni,
spaesamento
di un comandante allo
sbando.

Aiutano a decifrare le ragioni di una
scelta.
Su un altro piano, invece,
stanno le circostanze
occasionali che dirottarono
l’ufficiale verso la Repubblica
sociale. Per uno
come lui, sorvegliato e ricattabile,
in quel momento,
a Roma, i margini di
manovra erano piuttosto
ridotti. Allontanarsi sarebbe
stato un azzardo
nonostante avesse stabilito
contatti con i partigiani.
E non bisogna dimenticare,
sottolinea Claudio Pavone,
che «la scelta per la
Rsi fu spesso la fuga da un
momento della verità che
avrebbe dovuto costringere
a ragionare fino in fondo:
prospettiva questa per
i fascisti, la più paurosa».
Solinas fece la sua scelta:
«E non so dire se giusta o
sbagliata: lo dirà la storia.
Se sbagliata, ho pagato.
Ma allora ed ora la coscienza
mi ha sorretto e
mi sorregge perché ho
operato solo al servizio e
per il bene dell’Italia».
Come tanti altri ufficiali
costretti a non abbandonare
la capitale, anche il
generale sardo cercò di
attraversare indenne la
“città aperta” e disastrata
dopo l’armistizio. Tra panico,
confusione, minacce
di deportazione. E soprattutto,
dopo aver fronteggiato
i tedeschi al comando
della divisione Granatieri
di Sardegna, non fu
facile passare inosservato
ed evitare i rastrellamenti.
È utile ricordare il giudizio
che espresse Renzo
De Felice in “Mussolini
l’alleato”: «Oltre che per
il senso del dovere dimostrato,
il caso dei granatieri
merita di essere ricordato
perché essi erano
agli ordini del generale
Solinas di cui erano noti i
sentimenti fascisti e che,
ciò nonostante, fu tra i generali
uno di quelli che
nei giorni immediatamente
successivi all’armistizio
si comportarono meglio».

Dalle 22.10 dell’8 settembre
sino alle 16 del giorno
10, i Granatieri sopportarono
quasi da soli il peso
della difesa di Roma, spiega
Daniele Sanna, dopo
che la barriera esterna
composta dalle divisioni
Piacenza e 220a costiera
fu letteralmente sgominata
dai tedeschi. A complicare
le cose si aggiunsero
gli ordini assurdi in quella
circostanza di far convergere
le divisioni Ariete
e Piave verso Tivoli, nonostante
la pressante richiesta
di rinforzi avanzata da
Solinas. Ma la scala gerarchica
del comando militare
di Roma si era spezzata.
Tra fughe e defezioni,
le truppe avevano perso i
punti di riferimento. Solo
la Granatieri resisteva. Sino
al cessate il fuoco che
arrivò alle 16.10 del 10
settembre. Il comandante
dirà: «Il supremo dovere
militare imponeva a me e
ai miei fedeli collaboratori
un sacrificio durissimo:
l’obbedienza ad un ordine
del quale si intravedeva
l’inutilità».
Emilio Lussu ne “La difesa
di Roma” riconobbe
che «con un minimo di
organizzazione preordinata,
d’accordo con l’esercito,
e con l’iniziativa
dei suoi comandi, l’ingresso
a Roma per Porta
San Paolo sarebbe stato
un’operazione che il giorno
10 avrebbe reso impossibile
ai tedeschi». Ma,
si sa, corona e governo tagliarono
la corda consigliando
un bel “tutti a casa”
e ben poco si fece per
difendere l’Urbe. L’ordine
per gli ufficiali fu: «Vestire
l’abito borghese, evitare
la cattura e, chi è in
grado di farlo, raggiungere
la propria famiglia».
Solinas restò a Roma, non
volle allontanarsi dai suoi
soldati.
L’11 luglio del ’45 il generale
di Bonorva fu condannato
dalla Corte
straordinaria d’Assise di
Milano a 20 anni di carcere
per aver aderito alla
Rsi e accettato il comando
regionale della Lombardia.
Fu accusato anche di
aver costituito un tribunale
militare speciale.

Lui si
difese sostenendo che nel
periodo del suo comando
a Milano, 10 mesi da novembre
’43, si registrarono
30mila esoneri, 6500
militari internati in Svizzera
furono rimpatriati e
3500 disertori coperti. E i
repubblichini lo destituirono
pure dall’incarico.
«Da me non è stato mai
ordinato nessun arresto,
nessuna convocazione di
Tribunale straordinario,
nessun rastrellamento di
partigiani», dichiarava
Solinas.
La vicenda giudiziaria
si concluse bene per lui,
la Corte d’Assise di Roma
lo scagionò. Solinas morì
nel 1987 a Sassari all’età
di 94 anni. Un’immagine
del ’75 lo ritrae nella caserma
“Gonzaga” della
città durante un raduno di
bersaglieri, avvolto dal
piumetto d’ordinanza. La
giacca è stracarica di medaglie
e lo sguardo fermissimo
come se tentasse
di ingrandire qualche
fotogramma della memoria
ancora poco chiaro.
Ancora troppo controverso.

“Sa Mundana Cummedia”, poema alla macchia

Salvatore Poddighe, poeta di Dualchi, aveva al cuore un nobile intento: dare lughe a sa zente isolana, aprire gli occhi ai sardi con i versi, spiegare a dogni frade e a modo suo perché esi-stono ricchezza e povertà. Senza cadere nel tranello teso dai preti: «Ci fanno credere che se siamo sfortunati è perché Dio non ci ha dato fortuna». Per far questo si affidò alla sua lingua, il logudorese del Marghine, e con qualche farci-tura di italiano e campidanese scrisse in tre parti, tra il 1917 e il ’22, Sa Mundana Cumme-dia, opera che la Pro Loco di Dualchi ha recentemente ri-stampato. Considerata un punto fermo della poesia sarda, ha rappresentato uno strumento essenziale per la trasmissione della coscienza civile in ampi strati della popolazione. Sa Mundana appartiene a un uni-verso culturale- al di là della stampa e della critica “ufficia-le”- ancora in parte sommerso, a quella “letteratura alla macchia” di cui acutamente parlavano Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira.

Nel ’24 la tipografia Varsi di Iglesias pubblica le tre parti del componimento in ben 3500 copie e il Concilio dei ve-scovi sardi vieta ai poeti estemporanei di trattare argomenti di dottrina ecclesiastica. Fioccano ammonizioni, multe, divieti, sino a che dal ’32 al ’37 Chiesa e fascisti mettono al bando le gare poetiche. Ecco perché nell’ottobre del 1935, «avendo da parecchi mesi con-sumato le copie», ziu Bore è costretto a pregare il prefetto di autorizzare la ristampa del suo lavoro: «La tipografia non intende incominciare senza il nulla osta delle Autorità com-petenti. E perciò prego la Si-gnoria Vostra Illustrissima per-ché voglia gentilmente provve-dere alla mia umile domanda». Il 4 novembre, il questore inca-ricato dal prefetto risponde che «l’opuscolo in dialetto sar-do Sa Mundana Cummedia del quale l’autore Poddighe Salvatore, residente in Iglesias, chiede il nulla osta per la ri-stampa», non può essere pub-blicato perché «incita all’odio di classe e al vilipendio della religione ed i suoi ministri, e come rilevarsi dall’ultima pagi-na, è una pubblicazione fatta nel 1919 all’epoca rossa».

In più, dispone il sequestro di tut-te le copie ancora in vendita. Poddighe non riesce a tollera-re la censura. Privato anche dell’introito derivato dall’atti-vità letteraria che gli consenti-va di arrotondare lo stipendio da minatore, cade in depres-sione. Si toglie la vita a Iglesias il 14 novembre del 1938. Era nato a Sassari il 6 gen-naio del 1871 ma con la fami-glia si era trasferito immedia-tamente a Dualchi, paese dei genitori Bachisio e Filomena S Piras. In quegli anni rincorre-vano occasioni di lavoro dopo un rovescio di fortuna e il gior-no della nascita di Salvatore si trovavano in città perché Ba-chisio era al servizio dei mar-chesi di San Pietro e di San Se-bastiano come vignaiolo. La passione per i versi Salvatore la eredita dal padre e fin da ra-gazzo legge e addirittura pub-blica le gare poetiche di noti improvvisatori. A 18 anni, do-po aver imparato a scrivere da autodidatta, abbandona Dual-chi per cercare fortuna in mi-niera. Raggiunge Iglesias come migliaia di altri suoi coetanei per calarsi nei pozzi di Monte-poni e San Giovanni.

Qui si sposa, ha sei figli, conosce al-tri poeti con i quali si incontra la sera nelle bettole per im-provvisare. Sono Sebastiano Moretti di Tresnuraghes, Pie-tro Caria di Macomer, Antonio Bachisio Denti di Ottana. I lo-ro versi contra a s’isfruttadore sono ancora vivi nella memo-ria di molti. Sa Mundana Cummedia, si-no a ieri praticamente introva-bile, è stata dunque rispolve-rata. E non si tratta solo di un atto d’amore e di coraggio. Perché proporne la ristampa con una versione in italiano, aggiungere la storica critica di Salvator Angelo Vidili, la rispo-sta di Poddighe e una lirica di Pietro Caria, è soprattutto una significativa iniziativa cultura-le. Ben lungi da qualunque ri-caduta economica, la Pro Loco di Dualchi pubblica la compo-sizione più famosa di ziu Bore 25 anni dopo l’edizione curata da Gianpaolo Mura per l’Edi-trice sarda artigiana. Il compo-nimento era considerato un ti-tolo fondamentale da Antoni Cuccu, il nume tutelare delle opere in limba. Per anni, nelle feste paesane e nei mercati di Riappare dopo 25 anni (ma sempre per pochi) la Bibbia dei sardi di Bore Poddighe Salvatore Poddighe ritratto a Torino dove era emigrato con la famiglia, nel 1910 Il poema, scritto tra il 1917 e il 1922 con l’intento di “dare lughe a sa zente isolana” ha rappresentato uno strumento formidabile (e inviso) di crescita civile mezza Sardegna, non era diffi-cile incontrare l’omino di San Vito con la valigia carica di pic-coli e popolarissimi libretti co-lorati. Dalla quarta di coperti-na dei suoi supertascabili, Cuc-cu ammoniva: «Sa Mundana Cummedia – Critica e Contra critica in difesa ’e Sa Munda-na… sun tre libros de tenner in dogni domo paris su Vange-lu».

Tre libri da possedere in tutte le case come il Vangelo, «e i loro insegnamenti vanno messi in pratica per il bene dell’umanità». Sarà per questo che Peppe Lai, presidente del-la Pro loco dualchese, ha in-tenzione di ridare alle stampe tutti gli scritti di Poddighe, una decina di titoli: «Ci stiamo la-vorando», spiega, «stiamo rac-cogliendo informazioni, foto-grafie, manoscritti». Uno scavo nei ricordi che da anni sta coinvolgendo tutto il paese. Nel ’99 l’insegnante Angela Fois pubblicava un intervento sul poeta in un volume stampato dall’amministrazione comuna-le, l’anno dopo si inaugurava il primo concorso di poesia sarda in rima dedicato a Pod-dighe.

Adesso la ristampa de Sa Mundana con la versione italiana curata dalla stessa Fois. «Si tratta di un componi-mento poetico didascalico di grande respiro», scriveva Mi-chelangelo Pira ne La rivolta dell’oggetto. Contiene «istru-ziones in versos dialettales a sa sarda gioventude per spie-gare il formarsi delle classi so-ciali e le ragioni, non divine e non naturali, ma storiche del-le ingiustizie sociali e della di-seguaglianza. Contiene una violenta polemica contro i ric-chi, i potenti e il clero in nome di un dio giusto e popolare». Poddighe è anticlericale, influenzato dal pensiero anarchico e socialista. La durezza della miniera, il malessere, la vita sradicata dalle campagne, forgiano il carattere del poeta. Secondo Pira, il testo di Poddi-ghe interpreta l’ideologia egualitarista senza scarti della cultura popolare di lingua sar-da e «può essere paragonato solo a quel che è stato il Mani-festo per la cultura della clas-se operaia.

Sa Mundana Cummedia merita uno studio a par-te». Dopo quasi trent’anni, l’auspicio dell’intellettuale bit-tese non è stato ancora messo in pratica. Perché il buon lavo-ro di Gianpaolo Mura del 1980, è andato esaurito quasi subito e mai più ristampato. Perché, seppur validissima, l’i-niziativa della Pro Loco ha un raggio d’azione ridotto e so-prattutto perché, sino ad ora, è mancato l’impegno di un edi-tore importante che garantisse la giusta diffusione all’opera del poeta di Dualchi. Sa Mun-dana, poema alla macchia, re-sta quasi proibito, oggi come allora. WALTER FALGIO