La storia del generale
bonorvese Gioacchino
Solinas è stata relegata
colpevolmente in un cono
d’ombra della memoria
per 60 anni. Difficile trattare
la biografia di un ufficiale
del regio esercito
che combatté contro i tedeschi
durante la resistenza
romana di Porta
San Paolo e che, poco dopo,
aderì alla Repubblica
sociale italiana. Difficile e
scomodo. Tanto meglio
dimenticare, cassare l’episodio
sciagurato e far
sparire le prove. Dal libretto
personale del militare
sardo, custodito nell’Archivio
centrale dello
Stato, qualcuno ha strappato
le ultime pagine. La
carriera si interrompe
quel fatidico 8 settembre
del 1943. Su ciò che è successo
dopo, è meglio tacere.
A ricostruire la vicenda
di un personaggio che
frettolosamente potrebbe
essere etichettato come
“fascista antitedesco”, ci
pensa ora Daniele Sanna,
dottorando di ricerca sassarese
nell’Università di
Pavia, che in un libro pubblicato
da AM&D Edizioni
di Cagliari traccia un profilo
documentatissimo del
generale.
Da Porta San
Paolo a Salò (12 euro, 171
pagine) è interessante prima
di tutto perché riporta
una memoria inedita di
Gioacchino Solinas. La
sua schietta e personale
versione dei fatti, ritrovata
casualmente tra le carte
di un altro generale
senza peli sulla lingua,
Antonio Tedde di Torralba
che invece passò coi
partigiani. Del quale è stato
pubblicato il diario a
cura dello stesso Sanna
per Franco Angeli editore:
Un ufficiale scomodo
dall’armistizio alla guerra
di Liberazione.
La memoria di Solinas
avrebbe dovuto esser parte
di un’opera da scrivere
a quattro mani con Tedde
tra il 1966 e il ’67. Non se
ne fece nulla ma per fortuna
sono tornate alla luce
80 cartelle che aiutano
a capire drammi, contraddizioni,
spaesamento
di un comandante allo
sbando.
Aiutano a decifrare le ragioni di una
scelta.
Su un altro piano, invece,
stanno le circostanze
occasionali che dirottarono
l’ufficiale verso la Repubblica
sociale. Per uno
come lui, sorvegliato e ricattabile,
in quel momento,
a Roma, i margini di
manovra erano piuttosto
ridotti. Allontanarsi sarebbe
stato un azzardo
nonostante avesse stabilito
contatti con i partigiani.
E non bisogna dimenticare,
sottolinea Claudio Pavone,
che «la scelta per la
Rsi fu spesso la fuga da un
momento della verità che
avrebbe dovuto costringere
a ragionare fino in fondo:
prospettiva questa per
i fascisti, la più paurosa».
Solinas fece la sua scelta:
«E non so dire se giusta o
sbagliata: lo dirà la storia.
Se sbagliata, ho pagato.
Ma allora ed ora la coscienza
mi ha sorretto e
mi sorregge perché ho
operato solo al servizio e
per il bene dell’Italia».
Come tanti altri ufficiali
costretti a non abbandonare
la capitale, anche il
generale sardo cercò di
attraversare indenne la
“città aperta” e disastrata
dopo l’armistizio. Tra panico,
confusione, minacce
di deportazione. E soprattutto,
dopo aver fronteggiato
i tedeschi al comando
della divisione Granatieri
di Sardegna, non fu
facile passare inosservato
ed evitare i rastrellamenti.
È utile ricordare il giudizio
che espresse Renzo
De Felice in “Mussolini
l’alleato”: «Oltre che per
il senso del dovere dimostrato,
il caso dei granatieri
merita di essere ricordato
perché essi erano
agli ordini del generale
Solinas di cui erano noti i
sentimenti fascisti e che,
ciò nonostante, fu tra i generali
uno di quelli che
nei giorni immediatamente
successivi all’armistizio
si comportarono meglio».
Dalle 22.10 dell’8 settembre
sino alle 16 del giorno
10, i Granatieri sopportarono
quasi da soli il peso
della difesa di Roma, spiega
Daniele Sanna, dopo
che la barriera esterna
composta dalle divisioni
Piacenza e 220a costiera
fu letteralmente sgominata
dai tedeschi. A complicare
le cose si aggiunsero
gli ordini assurdi in quella
circostanza di far convergere
le divisioni Ariete
e Piave verso Tivoli, nonostante
la pressante richiesta
di rinforzi avanzata da
Solinas. Ma la scala gerarchica
del comando militare
di Roma si era spezzata.
Tra fughe e defezioni,
le truppe avevano perso i
punti di riferimento. Solo
la Granatieri resisteva. Sino
al cessate il fuoco che
arrivò alle 16.10 del 10
settembre. Il comandante
dirà: «Il supremo dovere
militare imponeva a me e
ai miei fedeli collaboratori
un sacrificio durissimo:
l’obbedienza ad un ordine
del quale si intravedeva
l’inutilità».
Emilio Lussu ne “La difesa
di Roma” riconobbe
che «con un minimo di
organizzazione preordinata,
d’accordo con l’esercito,
e con l’iniziativa
dei suoi comandi, l’ingresso
a Roma per Porta
San Paolo sarebbe stato
un’operazione che il giorno
10 avrebbe reso impossibile
ai tedeschi». Ma,
si sa, corona e governo tagliarono
la corda consigliando
un bel “tutti a casa”
e ben poco si fece per
difendere l’Urbe. L’ordine
per gli ufficiali fu: «Vestire
l’abito borghese, evitare
la cattura e, chi è in
grado di farlo, raggiungere
la propria famiglia».
Solinas restò a Roma, non
volle allontanarsi dai suoi
soldati.
L’11 luglio del ’45 il generale
di Bonorva fu condannato
dalla Corte
straordinaria d’Assise di
Milano a 20 anni di carcere
per aver aderito alla
Rsi e accettato il comando
regionale della Lombardia.
Fu accusato anche di
aver costituito un tribunale
militare speciale.
Lui si
difese sostenendo che nel
periodo del suo comando
a Milano, 10 mesi da novembre
’43, si registrarono
30mila esoneri, 6500
militari internati in Svizzera
furono rimpatriati e
3500 disertori coperti. E i
repubblichini lo destituirono
pure dall’incarico.
«Da me non è stato mai
ordinato nessun arresto,
nessuna convocazione di
Tribunale straordinario,
nessun rastrellamento di
partigiani», dichiarava
Solinas.
La vicenda giudiziaria
si concluse bene per lui,
la Corte d’Assise di Roma
lo scagionò. Solinas morì
nel 1987 a Sassari all’età
di 94 anni. Un’immagine
del ’75 lo ritrae nella caserma
“Gonzaga” della
città durante un raduno di
bersaglieri, avvolto dal
piumetto d’ordinanza. La
giacca è stracarica di medaglie
e lo sguardo fermissimo
come se tentasse
di ingrandire qualche
fotogramma della memoria
ancora poco chiaro.
Ancora troppo controverso.