Archivio mensile:Gennaio 2005

Ricordare e insegnare: L’antisemitismo è vivo

«Non perdere occasione per ricordare la Shoah e non demordere: l’antisemitismo è ancora vivo». L’invito,  rivolto prima di tutto agli studenti, è di Enzo Collotti, uno dei massimi storici della Germania e della Resistenza europea. Il ricordo non dev’essere svuotato e ritualizzato ma integrato dalla conoscenza fondata su solide basi scientifiche. Altrimenti si sconfina nella strumentalizzazione politica e si compie un altro crimine: «Quello dell’ignoranza e della mistificazione». Perché equiparare gulag e olocausto significa non affrontare la realtà per come si presenta, relativizzarla. Significa, Collotti ne è convinto, «giocare sulla pelle delle vittime». Diluire il male in un ampio calderone, in nome di un’assurda par condicio della storia, serve anche a diluire le responsabilità. Distinguere e contestualizzare questo male, così banale e terribile e così vicino alla nostra vita, notava Hannah Arendt, è un dovere in primis delle istituzioni formative. Che deve essere perseguito non solo il 27 gennaio.

Enzo Collotti  parteciperà questo pomeriggio a Cagliari, piazza d’Armi, a un dibattito su I lager e la Shoah in Italia e in Europa (ore 16 facoltà di Lettere e filosofia, aula magna del corpo aggiunto). Promuovono l’iniziativa il Dipartimento di Studi storici, l’Issra e diverse scuole cittadine quali lo Scano, il De Sanctis e il Siotto.
“L’esperienza di cui siamo
portatori noi superstiti dei lager
nazisti è estranea alle nuove
generazioni dell’Occidente, e
sempre più estranea si va facendo
man mano che passano
gli anni”: il monito di Primo Levi
è sempre valido?
«Per certi aspetti sì: più passa
il tempo e meno il ricordo è presente.

Per questo bisogna non
demordere, non perdere le occasioni
per ricordare. E il ricordo
non deve essere ritualizzato ma
unito a un processo di conoscenza
con interventi nelle scuole e
nelle università».
Come invitare le
nuove generazioni
a riflettere sulla
Shoah?
«I ragazzi devono
partecipare a
un processo di acquisizione
di nuove
conoscenze tenendo
conto del fatto che i veri
testimoni, fisiologicamente, stanno
scomparendo. Bisogna far capire
l’importanza che questi
eventi hanno avuto non solo storicamente
ma in relazione a problematiche
attuali, legate al riapparire
di manifestazioni antisemite.
Inoltre non deve trattarsi di
una conoscenza passiva.

In proposito
ricordo che molte scuole e
istituzioni locali organizzano i
viaggi ai campi di sterminio in
cui i ragazzi si accostano anche
fisicamente a questa realtà. Sono
esempi importanti, tanto più
se la riflessione non si esaurisce
nel momento della visita».
Il premio Nobel Elie Wiesel,
«N
sopravvissuto all’Olocausto, ritiene
che l’antisemitismo sia
ancora vivo soprattutto in Europa.
Si possono individuare
delle responsabilità, principalmente
politiche, nel perpetuarsi
di questo fenomeno?
«Da parte della politica ci sono
stati interventi insufficienti. Vi
sono governi che hanno ritenuto
opportuno reprimere il ripetersi
di questi fenomeni in modo serio
come la Germania, che ha approvato
la legge sulla menzogna di
Auschwitz, mentre
altri hanno fatto
poco. Nel parlamento
della Slesia
i deputati neonazisti
si sono rifiutati
di partecipare al
minuto di silenzio
in ricordo delle vittime
dell’Olocausto.
Si tratta di un atto dal forte
contenuto simbolico che ha molta
presa. Credo però che ancor
prima di leggi e repressione, ci
sia bisogno di educazione civica
e politica».
Le leggi antiebraiche italiane
del 1938 sono state uno dei tanti
crimini del fascismo.

Ma la
responsabilità fu solo delle autorità
di governo e del Re Vittorio
Emanuele III che le firmò,
oppure a sostenerle ci fu anche
un pregiudizio diffuso contro
gli ebrei?
«È senz’altro vero che ci fosse
questo pregiudizio diffuso, quindi
la responsabilità non va attribuita
solo al regime ma anche alla
cultura italiana nel suo complesso.
La risposta della società a
queste norme fu l’indifferenza.
Non dimentichiamoci poi che in
Italia esisteva il pregiudizio antiebraico
della Chiesa cattolica».
A questo proposito, la figura
di Pio XII è di nuovo al centro di
polemiche in seguito alla pubblicazione
della lettera inviata
al nunzio apostolico in Francia
dal Sant’Uffizio nel 1946 che
impediva di restituire alle famiglie
i bambini ebrei affidati alla
Chiesa e battezzati. Ammesso
che una sua presa di posizione
non sarebbe stata sufficiente
per evitare l’Olocausto, Papa
Pacelli sapeva? E avrebbe potuto
fare di più per salvare gli
ebrei dalla deportazione?
«È uno dei nodi centrali del dibattito
storiografico. Le informazioni
che allora aveva a disposizione
la Santa Sede, lo dimostrano
gli stessi documenti degli archivi
vaticani, erano sufficienti
per sollecitare un intervento ammonitore.
Certamente la situazione
non si sarebbe modificata
dall’oggi al domani ma la Chiesa
avrebbe potuto rivolgersi a molte
decine di milioni di persone in
tutta Europa. Non conosciamo
l’esito di un simile intervento, ma
escludo che avrebbe potuto peggiorare
la situazione come si temeva.

Così facendo la Chiesa
avrebbe continuato a incoraggiare
le molte azioni di salvataggio
degli ebrei e non è vero che non
sarebbe stata ascoltata. Dove un
intervento pubblico c’è stato, e
mi riferisco a quello del vescovo
di Munster contro l’eutanasia, le
autorità naziste hanno dovuto
porre un freno alla loro politica».
Anche gli Alleati ebbero le loro
responsabilità nel non bombardare
le linee ferroviarie che
portavano ai campi di sterminio
nell’Europa dell’Est.
«Gli Alleati avevano degli
obiettivi strategici e delle priorità
che fecero mettere da parte la
gravità di quello che stava accadendo
nell’Europa orientale.
Questo è un altro
aspetto che gli storici
devono indagare
perché non ci
si rassegni all’idea
che si è fatto tutto
il possibile. Bisogna
capire se si
poteva fare di più
e che cosa si poteva
fare».
Olocausto e gulag sullo stesso
piano. Perché questa stupida
par condicio della storia?
«Bisogna tenere distinti i problemi
e contestualizzare. Si tratta
di una grave relativizzazione
dei fenomeni che nasce da una
ripicca di carattere politico. In
realtà non si vogliono affrontare
due fatti diversi per come sono. È
necessario distinguere e specialmente
non si può giocare così
sulla pelle delle vittime.

Chi
uniforma e relativizza l’Olocausto
e i gulag compie un altro crimine,
quello dell’ignoranza e della
mistificazione».
Uso politico della storia: brutta
abitudine soprattutto italiana,
a destra come a sinistra?
«Il problema non è solo italiano,
riguarda tutto il mondo. Questa
abitudine di equiparare le responsabilità
delle colpe è frutto
di una consuetudine mediatica.
Ma le pratiche mediatiche non
possono essere applicate alla storia.
Nella storia non esiste par
condicio».
La critica delle scelte politiche
di Israele e l’antisemitismo
possono essere vasi comunicanti?
«I due elementi
si possono confondere.
Dobbiamo
stare attenti che la
critica politica, comunque
legittima,
non venga interpretata
come una
manifestazione di
antisemitismo e non sia strumentalizzata
».
Oggi si celebra la Giornata
della memoria e nel frattempo
si partecipa alle guerre globali
in nome di una discutibile supremazia
occidentale nel mondo.
Ma una cosa non è in contraddizione
con l’altra?
«Certamente sì. Dobbiamo riflettere
sui nostri atteggiamenti
in particolare per quanto riguarda
i popoli del terzo mondo. Questi,
velatamente, sono considerati
politicamente inferiori. Sono
comportamenti che esistono e
che dobbiamo reprimere con forza
».