Archivio mensile:Dicembre 2004

Il mio Natale in Medio Oriente

Cagliaritano d’adozione e oristanese di nascita, 40 anni e una coscienza pacifista a prova di bomba. Francesco Mugheddu, in questi giorni prefestivi, non ha avuto ne’ tempo ne’ voglia di sfidare la città in piena ubriacatura consumista. Lui, Natale e Capodanno li passerà nella Striscia di Gaza, dove di videofonini e abbigliamento griffato nessuno se ne fa niente. È partito ieri come osservatore internazionale dell’Unione europea in missione di lungo
periodo per le elezioni palestinesi. Laureato in Fisica all’Università cittadina, master in diritti umani e democratizzazione a Padova, è uno dei pochissimi sardi a fare questo lavoro: «Mi risulta che ci fosse solo un altro osservatore isolano». Gira il mondo sotto l’egida dell’Osce (Organization for security and co-operation in Europe) e dell’Ue da 11 anni. Dopo aver vissuto a Cagliari dall’83 al ’99, si è trasferito prima a Venezia e poi a Roma, dove tuttora risiede.

Perché questo lavoro?
«Perché mi sono sempre occupato di volontariato e cooperazione internazionale interessato di tematiche
legate alla pace e alla risoluzione dei conflitti. Durante gli anni dell’Università ho militato in organizzazioni non governative come Lavoriamo per la pace, di cui sono uno dei soci fondatori, Beati i costruttori di pace e Caritas diocesana, con la quale nel ’93 ho fatto la mia prima esperienza internazionale in Croazia».

Come si diventa osservatori internazionali?
«La chiave di volta per me è stata la partecipazione a un corso intensivo di cosiddetto peacekeeping, letteralmente “mantenimento della pace”, alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Subito dopo sono stato chiamato dal ministero degli Esteri per una missione in Bosnia».

In cosa consiste il suo lavoro?
«Un osservatore di lungo periodo all’estero controlla e partecipa a tutte le fasi del processo elettorale.
Intervista i rappresentanti della società civile, cittadini, autorità politiche, riguardo alle consultazioni. In seguito stila una relazione da spedire al nucleo direttivo, il core team, che dipende dall’organizzazione internazionale».

Di quali organizzazioni si tratta?
«Di Osce, Ue e Onu, che ha anche il potere di indire elezioni».

A quante missioni ha partecipato finora?
«Sette. Sono stato in Bosnia, Albania, Kosovo, Montenegro, Nigeria, Guatemala, Indonesia. E da oggi in Palestina».

Quali sono i rischi?
«Essere coinvolti in un incidente automobilistico o contrarre una malattia tropicale, per esempio. Il rischio più grave nel quale sono incorso è stato quando un serbo ubriaco mi ha aggredito a Rogatica, nella repubblica serba di Bosnia: non gli piaceva l’espressione “dialogo interetnico”».

È stato in zone di guerra contaminate da uranio impoverito?
«Sì, in Kosovo».

Eravate attrezzati contro le radiazioni nocive?
«No».

Quanto guadagna?
«Il nostro compenso è costituito da una indennità di rischio e da una diaria. Siamo inquadrati come consulenti e, tutto compreso, per una missione di lungo periodo arriviamo a guadagnare 5500 euro al mese».

Questo lavoro è conciliabile con una famiglia?
«È molto difficile, specialmente quando ci sono figli piccoli, anche se non è il mio caso».

Dove si svolge la sua nuova missione?
«A Tel Aviv, Striscia di Gaza e West Bank».

Ha paura?
«No».

Sarete scortati?
«Potremmo esserlo, ma non ce lo hanno ancora comunicato».

Dove trascorrerà il Natale?
«Se non sarò nella Striscia di Gaza, proverò a raggiungere Betlemme».

Le miniere di Buggerru come le prigioni zariste

All’indomani dell’eccidio di Buggerru, il quotidiano di Varese La Prealpina descriveva la tragedia dei minatori sardi accanto alle cronache della guerra russo-giapponese. Due eventi apparentemente molto distanti. Da una parte uno sciopero spontaneo, represso nel sangue dalle truppe del Regno d’Italia. Dall’altra l’esercito degli Zar che soccombeva dinanzi alla nascente potenza mondiale nipponica. Eppure non si trattava di un accostamento  arbitrario. «Le miniere sarde e la Russia zarista del 1904 erano due prigioni dei popoli. I minatori sardi e quelli  degli Urali condividevano le stesse sorti di una manodopera derelitta e sfruttata », spiega la storica della Russia Giannarita Mele. Degrado ed emarginazione sociale rappresentavano il loro destino comune. E lo sciopero generale, che di lì a poco avrebbe fatto ingresso nella storia d’Italia, era lo strumento di lotta più forte ed  efficace che, in tempi e forme diverse, avrebbe associato ancora una volta i lavoratori della Malfidano con quelli di San Pietroburgo.

Sardegna ed Europa nel primo decennio del Novecento. Il confronto sullo sciopero generale nel movimento socialista internazionale, è il tema del convegno di studi tenuto a Cagliari mercoledì e giovedì durante il quale la professoressa Mele ha parlato di rivoluzione antizarista in Russia. Promossa dal Dipartimento
di studi storici dell’Università di Cagliari, dal Dottorato di ricerca in storia moderna e contemporanea e dalla Fondazione “Giuseppe Di Vittorio”, l’iniziativa ha coinvolto diversi studiosi dell’ateneo sardo e delle Università di Milano, Roma “La Sapienza” e Teramo. Il Comune di Buggerru, la Fondazione Siotto e l’Istituto sardo per la storia della Resistenza hanno partecipato attivamente all’organizzazione. Filo conduttore dell’incontro, le molteplici forme di declinare lo sciopero generale riguardo ai molteplici casi nazionali europei all’alba del Novecento. Con al centro il tema della Sardegna e del suo impatto con la modernità causato dall’industria mineraria. «In un’isola ancorata alla civiltà agropastorale, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la miniera porta anche un moderno soggetto storico: il proletariato industriale, protagonista dello sviluppo democratico e civile della società novecentesca», esordisce il direttore del Dipartimento di studi storici Claudio Natoli.

A lui petta anche la premessa di metodo: «Il nostro intento è sempre quello di coniugare la conoscenza storica con l’impegno civile, in un rapporto vivo ma non strumentale con il presente e specialmente nella piena  salvaguardia dell’autonomia della ricerca». Dopo i saluti del sindaco di Buggerru, Giovanni Degortes, e dei rappresentanti sindacali dei minatori, Franco Orrù e Gigi Manca, il contemporaneista Adolfo Pepe, preside della facoltà di Scienze politiche di Teramo, spiega perché gli eventi di Buggerru hanno pesato in maniera così significativa sulla storia politica italiana. «Un avvenimento accaduto in una realtà neocoloniale come poteva essere la Sardegna di quegli anni, si trasforma in un evento simbolo che caratterizzerà tutta la storia del  Novecento». Il 4 settembre 1904 la fanteria accorsa su richiesta del direttore della miniera di Buggerru, Achille Georgiades, sparò sui minatori che scioperavano a causa delle inumane condizioni di lavoro e che chiedevano una riduzione dell’orario. Morirono in quattro: Felice Littera, Salvatore Montixi, Giustino Pittau e Salvatore Pilloni. Le organizzazioni dei lavoratori di Milano, in seguito a questi fatti, proclamarono il primo sciopero  generale della storia italiana.

«Con il 1904 si chiude il periodo della svolta giolittiana che era stato aperto a sua volta da un’altra mobilitazione generale, quella dei portuali di Genova del 1900 che protestavano contro la  paventata chiusura della Camera del lavoro», continua Pepe. Lo sciopero come «atto di solidarietà e forma di azione simbolica con una forte valenza di potere», in questo caso rappresenta un evento fondamentale, uno
spartiacque tra due fasi decisive della storia italiana del Novecento. E ancora oggi questa forma di lotta non è cambiata. L’azione diretta dello sciopero ha attraversato un secolo indenne «nonostante si tenti sempre più spesso di cancellare la centralità del lavoro dall’agenda politica del Paese», nota il presidente della Fondazione Di Vittorio Carlo Ghezzi. Lo stesso Natoli presenta poi una comparazione tra le esperienze di sciopero di massa in Austria e Germania, incentrate sull’ottenimento del suffragio universale e della tutela dei diritti dei lavoratori. Francesco Giasi della Fondazione Di Vittorio parla dell’importante caso belga e delle mobilitazioni operaie senza
precedenti del 1893 che coinvolsero ampi strati della popolazione. Anche in questo caso la protesta era mirata all’ottenimento del suffragio universale. Friedrich Engels paragonerà gli eventi belgi ad una marea crescente.

Di socialismo e sindacalismo rivoluzionario in Francia nel primo decennio del Novecento discute Giorgio Caredda dell’Università “La Sapienza”, mentre Luciano Marrocu, docente all’ateneo cagliaritano, presenta i suoi studi sul movimento laburista inglese. Una intera sessione del convegno è stata dedicata alla proiezione di un film italiano del 1987 sulla storia dei minatori sardi e poco conosciuto: Noistottus di Piero D’Onofrio e Fabio Vannini. «Un lavoro singolare dal punto di vista espressivo, dove coesistono diverse opzioni narrative», dice lo storico del cinema David Bruni. Il film comunica all’antropologo Giulio Angioni un senso di lontananza da un mondo
che non esiste più: «La sola cosa che rimane dell’esperienza mineraria che pare finita in un buco nero
è Carbonia, città di frontiera, multietnica e con una forte identità, sicuramente più forte di quella dei cagliaritani
». Lo storico Gian Giacomo Ortu conclude che «i gruppi capitalistici che hanno promosso e controllato l’attività mineraria in Sardegna erano estranei all’Isola. Per questo motivo l’industria estrattiva non ha fertilizzato il territorio, ma lo ha solo isterilito e svuotato». A parte un non bene identificato Parco geominerario, che cosa resta al posto dei vecchi pozzi? «Per esempio l’Università», dice il rettore Pasquale Mistretta. «L’Università è presente in quel territorio e continua a esportare tecnologie in Cile e in Perù», dove le miniere non sono state condannate a morte.